La figura del grande psicoanalista viennese Heinz Kohut non ha certo bisogno di essere diffusamente rammentata. Nel 1939 emigrò negli Stati Uniti, divenendo nel giro di pochi decenni una delle figure preminenti della psicoanalisi internazionale. Dopo l’affermarsi della Psicologia dell’Io creata da Heinz Hartmann, Kohut seguì un cammino assolutamente originale, almeno per certi versi, che lo condusse negli anni Settanta alla fondazione della Psicologia del Sé (Self). Fra i tanti aspetti che lo hanno visto protagonista della psicoanalisi di quegli anni, ci limitiamo a ricordarne due. Il primo e certamente il più rilevante si può caratterizzare come una sorta di revisione e rivalutazione del concetto di narcisismo. Kohut opera, a mio parere, un’importante e convincente distinzione tra un narcisismo primitivo e spiccatamente patologico, che inibisce l’accesso al benessere, e un narcisismo maturo e sano che apre la strada nientedimeno che alla saggezza. I linguaggi e i sistemi concettuali sono sicuramente e profondamente diversi, e tuttavia si può cogliere qui una consonanza con la distinzione tra narcisismo di vita e narcisismo di morte che André Green teorizzò nel 1983.
Il secondo punto della carriera di Kohut che è entrato a pieno titolo nella storia della psicoanalisi è rappresentato dall’aspra polemica che lo oppose a Otto Kernberg in merito alla comprensione psicoanalitica dei disturbi di personalità.
En passant, anche Kernberg, al pari di Hartmann e Kouht, nacque a Vienna. Negli anni Trenta del secolo scorso il cuore pulsante della psicoanalisi da Vienna andò spostandosi verso Londra, diffondendosi in seguito in tutto il mondo. Vienna rimane nondimeno, a partire naturalmente dall’opera fondatrice di Sigmund Freud, il suo luogo di origine e di espansione gravitazionale.
La polemica tra Kohut e Kernberg toccava numerosi problemi, anche di natura diagnostica e nosografica. Ma il punto eminente della diatriba riguardò la valutazione dell’eziologia, del trattamento e della prognosi del disturbo narcisistico di personalità. In estrema sintesi possiamo, semplificando un po’ la questione, riassumere la contrapposizione nei seguenti termini: per Kernberg, nel quale in verità io riconosco il seguace più fedele pur nella sua originalità, di Melanie Klein, i disturbi narcisistici hanno sempre un’origine pulsionale. Per Kohut, al contrario, le patologie narcisistiche scaturiscono da carenze delle cure materne infantili, soprattutto in relazione alla funzione materna del rispecchiamento e a quella strettamente connessa dell’idealizzazione dell’immagine della madre.
Gli storici concordano oggi nel sostenere che la scaturigine della polemica risiedeva in realtà nella diversa tipologia di pazienti narcisisti che i due grandi psicoanalisti cercavano di curare. I pazienti di Kernberg, che egli vedeva presso il Cornell University Medicale College di New York, dove insegnava, erano gravi e spesso gravissimi, non di rado con spiccate tendenze suicidarie o antisociali; i pazienti di Kohut erano invece per lo più agiati professionisti newyorkesi che lamentavano senso di vuoto, sentimenti depressivi, stati ansiosi; la disputa, che pure ha grandemente arricchito la letteratura sull’argomento, si basava pertanto su un equivoco: i narcisisti di Kernberg erano tendenzialmente o francamente psicotici, i narcisisti di Kohut rientravano invece per lo più nel vasto e variegato campo delle nevrosi o dei lievi disturbi del carattere.
Mi scuso con il lettore se l’ho annoiato propinandogli informazione ben note e mi scuso ulteriormente in quanto il nucleo di questo mio breve intervento non concerne in senso proprio la psicoanalisi di Kohut; concerne invece una delle sue numerose e finissime incursioni in campi estranei alla psicoanalisi, come l’arte, la letteratura, la storia, la civiltà, la filosofia. Rimasi anni or sono letteralmente e piacevolmente illuminato leggendo il seguente brano di Heinz Kohut tratto dalla Ricerca del Sé:
Sarebbe, nel complesso, piacevole, se potessimo fare così: se potessimo affermare – in un’applicazione semplicistica del principio del Disagio della civiltà – che Hitler sfruttò la disposizione di una nazione civilizzata a lasciar cadere lo strato sottile delle sue inibizioni malamente sopportate, arrivando agli avvenimenti indicibili della decade dal 1935 al 1945. La verità è – bisogna ammetterlo con tristezza – che tali avvenimenti non sono bestiali, nel senso primario della parola, ma decisamente umani. Fino a quando ci allontaniamo da questi fenomeni con terrore e disgusto e dichiariamo con indignazione che sono un ritorno alla barbarie, una regressione al primitivo e all’animalesco, nello stesso momento perdiamo la possibilità di ottenere una migliore intelligenza dell’aggressività umana e della nostra padronanza su di essa.[1]
Lascio volentieri al lettore il piacere di meditare da sé su queste parole che a me tuttavia paiono indiscutibilmente profonde e vere. Non vorrei neanche influenzarlo più di tanto con qualche mio improvvisato commento. Mi sento già sufficientemente orgoglioso per avergli sottoposto questa straordinaria riflessione di Kohut. Mi limiterò pertanto a un’unica scarna osservazione. Kohut parla, nel brano citato, di Hitler e del nazismo. A Hitler potremmo aggiungere innumerevoli altri sanguinarti dittatori di prima e di poi, e anche di adesso. Potremmo inoltre aggiungere i casi sempre più numerosi di maltrattamenti di donne e minori. E il punto mi pare questo: vedere nel male una regressione dall’uomo alla bestia è un alibi confortevole - Kohut dice piacevole. Le cose sono andate così: Hitler ha fatto regredire il popolo tedesco a uno stadio primitivo, irrazionale e cieco. E invece, ci dice Kohut, questo è solamente un modo subdolo per evitare ed esorcizzare ciò che è vero al di là di ogni dubbio: i comportamenti dei nazisti, perfino delle SS nei campi di sterminio sono e restano “decisamente umani”; vale a dire: appartengono alla fenomenologia inesauribile delle emozioni e dei conseguenti comportamenti che l’essere umano, la stessa specie umana, ha facoltà di porre in atto. Solo se si neutralizza l’alibi della regressione, il male, quale che sia la sua espressione, può cominciare a essere conosciuto e magari controllato, soggiogato.