Nella rubrica “Abbiamo letto...” il nostro Direttore Guido Medri ci offre uno stimolo alla riflessione che tocca centralmente il lavoro psicoanalitico nell’istituzione. Raccolgo per primo il suo invito al confronto proponendo queste considerazioni, aprendo un dibattito che mi auguro sia ampio e coinvolgente.
Tra gli interrogativi sollevati da Guido Medri voglio raccogliere quelli che maggiormente toccano alcuni aspetti della mia esperienza lavorativa, che mi portano a vedere le questioni proposte con un coinvolgimento particolare dato dal mio trovarmi ancora attualmente immerso nel contesto della psichiatria, e dall’aver partecipato dal di dentro ad alcuni rivolgimenti storici dell’assetto strutturale dei servizi.
Come già altre volte ho detto anche nelle pagine della rivista, il mio lavoro si è sempre svolto, a fianco della pratica privata, nell’istituzione psichiatrica. Ho cominciato nel 1976, da tirocinante fresco di laurea in Psicologia, in uno degli Ospedali Psichiatrici Provinciali di Milano, il Cerletti di Parabiago, prima della legge 180; nella stessa struttura sono poi diventato Consulente Psicoterapeuta nel 1977, e dal 1979, con la territorializzazione dei servizi decretata dalla legge 180 (che è della fine del 1978) ho cominciato a lavorare nel Servizio Psichiatrico dove tuttora lavoro, che oggi fa capo all’Azienda Ospedaliera di Melegnano, avendo sede per la quasi totalità del tempo presso il Centro Psico-Sociale di Gorgonzola.
In un mio articolo comparso nel 2002 su Costruzioni Psicoanalitiche[1], ho cercato di tracciare il mio percorso lavorativo nell’ambito dell’istituzione psichiatrica fino ad allora e, rispetto alle conclusioni che traevo, oggi riesco ad essere più ottimista, perché alcuni aspetti del lavoro istituzionale, che allora sembravano essersi gradualmente atrofizzati in funzione dell’aziendalizzazione della sanità e della medicalizzazione della psichiatria, si sono poi leggermente modificati in senso positivo, permettendo uno spazio d’azione maggiore per chi, come me, ha sempre cercato di mantenersi aderente a una prospettiva psicoanalitica nell’approccio con il paziente (un aspetto che differenzia il mio punto di vista da quello di Medri è il mio essere Psicologo e non Psichiatra, e quindi il poter lavorare nell’istituzione col vantaggio di non essere caricato di certi vincoli legati alla professione medica, vincoli che per chi è psicoanalista non sono certo un elemento facilitante).
Questi due aspetti restano comunque fondamentali per la trasformazione avvenuta dopo quella epocale dovuta a Basaglia e alla chiusura dei manicomi. Così, visto che il lapsus di Cabibbe che dà origine al suo libro e agli interrogativi di Medri mette in parallelo l’istituzione psichiatrica chiusa e la relazione di coppia, suggerendone un’immagine caratterizzata da una possibile analogia, cercherò di raccogliere alcune sollecitazioni di Medri in funzione di quest’idea, collegandola ai rivolgimenti storici della psichiatria legati alla sua aziendalizzazione e medicalizzazione.
Prima di tutto chiarisco cosa intendo con questi due termini.
Per il primo, aziendalizzazione, riporto quanto ho scritto nel mio articolo citato, al quale, scritto nel 2002, ho modificato i tempi aggiornandoli a oggi.
Gli anni ’90 sono stati caratterizzati dal crollo, insieme al muro di Berlino, dell’idea comunista, e dal rifluire, anche nell’ambito della cultura di sinistra, di una prospettiva che si rifà ai princìpi del liberalismo. L’idea di un’istituzione che si pone al servizio dei cittadini senza un criterio di base fondato sulla “produttività” incontrava ormai pochissimi consensi, e sembrava assodata l’idea che un buon “gestore” dovesse acquisire una cultura manageriale che gli permettesse di far fruttare anche quelle strutture che solo pochi anni prima venivano concepite come servizi per il cittadino, e che erano, in quanto tali, svincolate dai criteri che governano le aziende e l’economia capitalista. Non solo. Sembrava ormai altrettanto assodato, anche se ogni tanto si faceva appello alla “solidarietà”, termine del quale è difficile ancora oggi comprendere il significato preciso, che l’unico incentivo per il singolo fosse quello economico, e per l’ente quello concorrenziale, in una società dove da un lato si lamentava la mancanza di valori e dall’altro si dava per scontato che non esistesse una coscienza sociale e che fosse impossibile impegnarsi in nome di quegli ideali che un tempo sapevano smuovere le masse.
Col termine di “malasanità”, usato spesso a sproposito, si denunciavano alcune efferatezze, arrivando però a generalizzare un malcostume tutt’altro che generale, e a giustificare tagli della spesa pubblica che andavano a colpire ambiti dove non era assolutamente il caso che ciò accadesse. La psichiatria si trovò nel giro di breve tempo fortemente mutilata, e messa nella condizione, al pari di tutte le altre branche della sanità, di dover dare prova di efficienza produttiva. I primari erano sempre più sollecitati ad acquisire una cultura manageriale, e gli operatori a dimostrare che il loro lavoro produceva, in termini economici sensu stricto, almeno tanto quanto costava all’istituzione. E ciò veniva ulteriormente rinforzato dalla concorrenzialità, caratteristica di quegli anni, con gli enti privati.
Ancora oggi molti aspetti della sanità si sono mantenuti in questa prospettiva, ma qua e là si scorge qualche segnale di un ritorno a un’umanizzazione dei servizi. Il passaggio determinato dall’aziendalizzazione mi dà modo comunque di riprendere un tema sollevato da Cabibbe nel suo libro e ripreso da Medri nel suo articolo. Dice Medri:
E intanto viene messo tutto in discussione, il principio di autorità, il ricovero, la durata del ricovero, la contenzione, l’approccio terapeutico, il ruolo del primario, i compiti dell’infermiere, l’assistenza ambulatoriale, la chiamata in causa dei familiari del paziente, le regole della società in quanto dominata dalla logica del capitale e via dicendo. Cabibbe però non intende descrivere come era la psichiatria e come è cambiata, non sta dalla parte dell’osservatore o dello storico, e neppure ci riflette sopra per fare della teoria. È uno psichiatra che intende fare bene il suo mestiere e che confronta costantemente il suo operato con i mezzi che gli sono messi a disposizione e i contesti in cui si trova a muoversi (è cosa ben diversa trattare un paziente nel vecchio manicomio o nel reparto di un ospedale civile che ha come prima urgenza che gli si liberino i letti il più presto possibile).
Nell’ultimo discorso (proposto tra parentesi) viena data come unica motivazione per la brevità dei ricoveri psichiatrici in ospedale civile quella che, per quella che è la mia testimonianza, divenne tale solo dopo almeno un decennio dall’entrata in vigore della legge 180. Se infatti dopo l’aziendalizzazione il criterio del liberare i letti il più presto possibile si metteva in linea con la logica ospedaliera di un servizio che dev’essere “produttivo” secondo la metodologia aziendale, almeno per tutti gli anni ottanta la logica dei ricoveri brevi era invece motivata dallo sforzo messo in atto da parte dei servizi psichiatrici di affrontare efficacemente il tema dell’istituzione “cronicizzante”. Sottrarsi alla logica del vecchio manicomio, che nei reparti più evoluti creava atelier di pittura, costituiva gruppi di varie attività, e aveva spesso una collocazione caratterizzata da grandi parchi nei quali si potesse passeggiare e trovare momenti di tranquillità in solitudine, voleva dire evitare che il ricovero fosse un rifugio nel quale il paziente trovasse una valida alternativa alla sua vita di fuori, uscendo così, a volte per sempre, dal proprio contesto relazionale e culturale. Non rendere troppo “gradevole” il soggiorno in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) aveva, all’entrata in vigore della legge 180 e almeno nel decennio successivo, il senso di impedire che il ricovero si configurasse come riparo sicuro nel quale rifugiarsi trovando una situazione regredita e stabilizzata, e al tempo stesso sufficientemente “evoluta”, da non sollecitare a un ritorno nel proprio mondo.
A chi ha sentito solo raccontare dei manicomi, potrà forse sembrare strano che per la maggior parte i pazienti lì ricoverati dicessero di starci bene, chiedendo di non essere rimandati a casa; questo almeno è quello che ho potuto constatare di persona in un Ospedale Psichiatrico come il Cerletti, che era all’avanguardia nel proporre ai degenti una vita con molti aspetti più evoluti rispetto alla media dei manicomi italiani, che aveva in parte anticipato alcune modalità della legge 180 costituendo degli ambulatori di zona, ma che al tempo stesso risentiva, come tutti, dei criteri di una legislazione che prescriveva che un paziente per essere dimesso dovesse essere dichiarato “guarito”, con tanto di timbro sulla cartella clinica. Visto che i ricoveri erano concepiti a lungo termine, la sensibilità nei confronti dei degenti portava a costituire degli spazi accoglienti, che rendevano accettabile e addirittura desiderabile la permanenza in questi luoghi, strutturando quasi sempre una via senza ritorno. È possibile che nei servizi costituitisi con l’entrata in vigore della legge 180 ci sia stato un “eccesso di zelo”, e che i primi SPDC fossero tanto “spartani” quanto accoglienti e involontariamente cronicizzanti erano stati gli spazi dei manicomi più evoluti, ma la legge segnava un cambiamento radicale e, se si può aver esagerato, lo si è fatto, in quel periodo, per lasciarsi alle spalle tutto ciò che poteva evocare l’istituzione manicomiale, evitando il più possibile situazioni che potessero favorire meccanismi regressivi e favorendo, anche con mezzi che potevano apparire spietati, le risorse progressive dei pazienti e di coloro che popolavano il loro mondo di appartenenza, con la consegna “forte” di restituire al più presto i soggetti al loro ambiente. Non a caso, proprio in quegli anni la prospettiva “ecologica” di Bateson e la teoria sistemica di Watzlawick e della scuola di Palo Alto (e, in Italia, di Mara Palazzoli Selvini, che ebbe un seguito anche a livello internazionale) vennero adottate da molte équipes di psichiatri e psicologi, che ritenevano queste idee molto più consone alla visione basagliana rispetto alla psicoanalisi ritenuta “scienza borghese”.
Per non dilungarmi, non tratterò qui di questo argomento, di cui ho parlato diffusamente altrove, limitandomi a dire che mantenersi fedeli alla psicoanalisi in quel contesto e in quel momento storico ha richiesto una riflessione profonda e coinvolgente, e che uno degli aspetti imprescindibili è stato ed è il criterio del lavoro d’équipe come base per una condivisione del lavoro terapeutico, pensato comunque come frutto di un’integrazione di pensieri e di prassi operative.
La situazione che Medri descrive come “reparto di un ospedale civile che ha come prima urgenza che gli si liberino i letti il più presto possibile” si ebbe quando le Unità Socio-Sanitarie Locali (USSL) e gli Ospedali diventarono Aziende Sanitarie Locali (ASL) (non molti lo notarono, ma venne tolto anche il “Socio-”) e Aziende Ospedaliere (AO). Apparentemente accadeva ancora la stessa cosa, e cioè che i ricoveri fossero brevi e che all’interno dell’SPDC non si creassero situazioni che evocassero in qualche modo le lungodegenze del manicomio; ma mentre nel primo decennio di 180 era chiaro a tutti che (fosse condivisibile o no il principio) si cercava di attuare una strategia funzionale al percorso evolutivo del paziente, che non andava trattenuto e che veniva restituito al più presto al suo “territorio”, dagli anni novanta in poi si cominciò a pensare anche, e spesso soprattutto, alle esigenze delle strutture istituzionali e dunque l’“urgenza che... si liberino i letti il più presto possibile” diventò prioritaria, a volte anche a scapito di quanto potesse risultare di giovamento al paziente, e a prescindere dall’aver operato in termini trasformativi sull’ambiente di accoglienza; quello che nel primo decennio era centrale e considerato necessario per parlare di una dimissione ben fatta divenne successivamente marginale, a favore di una prospettiva legata maggiormente alle esigenze della struttura ospedaliera e a un suo funzionamento secondo parametri precisi di riferimento.
E qui si innesta il secondo termine che ho proposto: la medicalizzazione della psichiatria. Mi fa piacere constatare che sia Medri che Cabibbe, pur essendo medici, non facciano propria e anzi critichino nettamente l’idea che la malattia mentale sia una malattia come le altre. Questa frase, oggi purtroppo sulla bocca di molti, anche nell’ambito dei mass media e in situazioni di grande popolarità, ha portato a mio avviso alla diffusione di una prospettiva che, nel tentativo di togliere alla follia quell’alone di diffidenza legato al “mistero”e alla “pericolosità”, ne ha fatto un qualcosa che prima di essere capito (cosa che per molti, anche del mestiere, non è più necessaria) va curato, e a quel punto l’elemento essenziale della cura diventa il farmaco e il curante per eccellenza il medico. Gli altri aspetti dell’intervento, e gli operatori coinvolti, diventano corollari dell’intervento del medico, unico operatore necessario alla cura.
Il passaggio dall’USSL all’ASL e dall’Ospedale all’AO segnano dunque un significativo ritorno a un approccio curativo che riporta al centro la figura del medico, e dunque per certi versi fa regredire l’istituzione psichiatrica verso un’istituzionalizzazione della malattia mentale pensata come “male” da “curare”, spazzando via molti dei sottili rigagnoli di ideologia e di cultura umanistica e sociale che la fine degli anni settanta aveva prodotto, e di cui la legge Basaglia è stata, e per fortuna è ancora, uno degli esiti migliori.
Nel servizio in cui lavoro, e nel quale conto di lavorare ancora per molti anni, alla medicalizzazione imperante si oppone con forza la presenza di alcuni psichiatri di vedute più ampie, con i quali è piacevole quotidianamente confrontarsi, e che a loro volta cercano di andare al di là di quello che alcune regole calate dall’alto tenderebbero a rendere necessario.
In più, ho a volte il piacere di partecipare ad incontri dove la psichiatria fenomenologica sulla scia di Jaspers o di Minkowsky ha ancora uno spazio di plausibilità e di applicabilità, grazie all’eredità di personaggi come Barison e Gozzetti e alla presenza ancora viva di figure come Borgna e Ballerini.
Sarebbe interessante, alla luce della psichiatria fenomenologica, affrontare le due frasi da Epitteto e Leopardi citate da Cabibbe e riportate da Medri come “esattamente i due corni del dilemma in cui da anni mi dibatto anch’io”. Per non appesantire troppo questo lavoro mi limiterò ad esprimere ancora una volta il mio compiacimento per la possibile condivisione tra psichiatri e psicologi di un dilemma come questo, vedendo nell’approccio fenomenologico una dimensione dove la centralità del “capire”, a volte forse eccessivamente a scapito della “cura” in senso medico, permette una conciliazione fra “un ‘feroce’ sentimento di rivalsa e ribellione” e “le riflessioni che fanno parte di ogni uomo che, giunto in tarda età, si gira indietro a considerare la sua vita, fra serenità ed accettazione”. Serenità e accettazione che sono comunque ben altra cosa rispetto alla rassegnazione o alla passiva indifferenza.
Per ciò che riguarda la psicoanalisi e la sua applicabilità nell’istituzione psichiatrica, posso dire, riprendendo un mio scritto[2], che
il mio modo di applicare la psicoanalisi nell’istituzione non parte dal presupposto di leggere l’istituzione secondo la griglia della psicoanalisi, ma di trovare per l’approccio psicoanalitico (anzi, per il mio approccio psicoanalitico) una collocazione che riesca ad amalgamarsi costruttivamente con le varie modalità operative dei colleghi con cui mi trovo a lavorare. Ciò in funzione e sulla base di un approccio integrato, in cui la psicoanalisi [...] porti un contributo che possa intrecciarsi con il lavoro dell’équipe psichiatrica, [...] portando ad operare quelle “connessioni” che sono salutari non soltanto al paziente o al gruppo terapeutico, ma anche all’équipe come gruppo.
Dunque una psicoanalisi nell’istituzione che non pretenda di essere psicoanalisi dell’istituzione.
Alla luce di quanto fin qui detto rispondo brevemente alla domanda di Medri sull'esistenza degli schizofrenici nel mondo di oggi. Sì, esistono ancora ma se ne parla di meno e meno in profondità, proprio per il processo di medicalizzazione della psichiatria che ha reso la schizofrenia “una malattia come un’altra”. Mi auguro di aver fatto un’affermazione esagerata, e nel mio spazio d’azione cerco di fare in modo che non sia così. Ma assistendo a certi dibattiti o ascoltando persone anche qualificate della medicina “ufficiale” si può avere l’impressione di un impoverimento della dimensione umana a favore di una semplificazione che vuole rassicurare, e perde così di vista la complessità della persona umana.
Concluderò con la ripresa del lapsus “matrimonio-manicomio”. In riferimento al manicomio ho cercato di evidenziare come il privilegiare gli aspetti che vanno a vantaggio dell’istituzione a scapito del benessere e dell’evoluzione del soggetto producano una cronicizzazione che paralizza le relazioni in atto, a favore di una dimensione conservativa. Penso che nel matrimonio possa accadere la stessa cosa. Non è il matrimonio in sé a risultare paralizzante nei confronti dello sviluppo della relazione d’amore, ma il farne un’istituzione chiusa che bada a mantenersi in vita attraverso un prendersi cura delle forme che lo fanno rimanere uguale a se stesso. Il matrimonio-manicomio è una relazione che si istituisce in una forma cronicizzante che è tesa solo alla conservazione, privandosi così di quella dimensione trasformativa che porta continuamente nuova linfa vitale al rapporto. La relazione che si fonda su un “capire che trasforma” è l’alternativa al “matrimonio-manicomio” e, nei rapporti umani come in quello terapeutico, la chiave di volta di un percorso di vita che mette l’istituzione al servizio delle persone e non viceversa.
[1] Carnevali R., “Psicoanalisi, psichiatria e territorio. La psicoterapia psicoanalitica dal manicomio ai servizi territoriali attraverso la legge 180”, in Costruzioni psicoanalitiche n. 1/2002, FrancoAngeli, Milano.
[2] v. Carnevali R. “L’analista in gruppo tra ‘diabolico’ e ‘simbolico’. Uso del setting gruppale in ambito istituzionale”, in Carnevali R., Pratelli A., Pensare il gruppo, ARPANet, Milano, 2006; p. 96.