Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 10
1 - 2014 mese di Giugno
ABBIAMO LETTO...
MATRIMONIO MANICOMIO
di Guido Medri

Questo è il curioso titolo di un libro di Cabibbe ricavato da un lapsus nel quale gli accadeva spesso di dire matrimonio invece di manicomio. Lascio la gustosissima analisi di questo bisticcio linguistico al lettore, ma è già ovvio che sta a significare lo strettissimo legame che si era venuto instaurando fra lui e l’istituzione “manicomio” nella quale lavorava. Cabibbe vuole parlarci di questo, ripercorrere la sua attività di psichiatra dal 1966 fino agli anni novanta e oltre; a partire dall’inizio come assistente nella clinica psichiatrica di Milano, fino alle dimissioni dall’SPDC di cui era direttore per dedicarsi alla pratica privata come psicoanalista (Cabibbe è junghiano, membro didatta dell’ARPA e dell’IAAP).

Ci siamo conosciuti presso la Clinica Psichiatrica di cui era direttore Cazzullo. Lui era nelle sue grazie e in predicato di fare una brillante carriera in ambito universitario, mentre io, con tutti i problemi che avevo con l’autorità, ero tagliato fuori già in partenza. Per giunta, dopo aver fatto la tesi di laurea con il professore, mi ero iscritto al corso di specializzazione in neuropsichiatria di Modena (ancora non sapevo se volevo fare lo psichiatra o il neurologo) e Cazzullo, direttore della prima e unica cattedra di psichiatria in Italia, l’aveva presa come un tradimento imperdonabile. A quei tempi quindi consideravo Cabibbe con un certo sospetto e i nostri rapporti si limitavano al minimo essenziale. La clinica era frequentata da persone di grande valore, come De Martiis, Leonardi, Charmet, De Masi e tanti altri, ma il clima fra di noi era di diffidenza, la competizione era altissima ed eravamo tutti in grande soggezione rispetto ad un capo che si valeva di un potere assoluto ed esercitato inoltre secondo logiche del tutto imprevedibili. Non mi voglio soffermare a rievocare quegli anni, a cavallo del ’68. Basti dire che i nemici erano i socialisti e, più ancora, la psicoanalisi, che tutto il nostro sapere si basava sul Bini e Bazzi (per chi non lo sapesse era un libro di psicopatologia scopiazzato dai tedeschi) e che ciò di cui in particolare ci si faceva vanto era che associavamo agli psicofarmaci degli epatoprotettori (mentre lo scrivo mi sembra impossibile, ma questo è quello che ricordo). Dopo circa un anno me ne andavo, insalutato ospite, ma venivo poi a scoprire che anche Cabibbe, che aveva tutte le ragioni e la convenienza di restare, aveva invece anche lui dato le dimissioni, evidentemente stanco dell’atmosfera irrespirabile di quel posto. Ne conseguiva che l’opinione negativa che avevo di lui si trasformava in sincera ammirazione cui è seguita poi una solida amicizia.

Il libro narra di contesti lavorativi che conosco bene, di colleghi (i vecchi psichiatri di un tempo) che ho frequentato, dei “matti” che ho curato, (o cercato di curare), dei cambiamenti epocali che hanno portato dal manicomio agli SPDC e alla psichiatria territoriale, delle furiose dispute al confine fra psichiatria organicistica, psichiatria psicodinamica e politica, dei forti conflitti fra direzione sanitaria, primari, assistenti psichiatri, assistenti sociali, infermieri, medici dell’ospedale civile, insomma di avvenimenti che ho vissuti anch’io, in prima persona. Forse è per questo che lo scritto mi ha dato delle forti emozioni. Cabibbe si ritrova nel mezzo della mischia, si augura e promuove il cambiamento, salvo rendersi conto che, in verità, lo sta in larga misura anche subendo. Negli ultimi anni del percorso si ritrova addirittura scavalcato a sinistra, nella parte del primario contestato da gran parte degli operatori come reazionario, crede nella psicoanalisi, ma non può esercitarla perché incalzato da modalità di cura che danno il primato alla sociologia e alla politica. In effetti, nell’arco di pochi anni, tutto cambia, in primo luogo sul piano istituzionale (la legge Basaglia è stata una riforma vera, rivoluzionaria). Ma cambia anche la psicofarmacologia, si evolve l’intero contesto culturale e sociale, prende piede l’approccio psicodinamico. E intanto viene messo tutto in discussione, il principio di autorità, il ricovero, la durata del ricovero, la contenzione, l’approccio terapeutico, il ruolo del primario, i compiti dell’infermiere, l’assistenza ambulatoriale, la chiamata in causa della familiari del paziente, le regole della società in quanto dominata dalla logica del capitale e via dicendo. Cabibbe però non intende descrivere come era la psichiatria e come è cambiata, non sta dalla parte dell’osservatore o dello storico, e neppure ci riflette sopra per fare della teoria. È uno psichiatra che intende fare bene il suo mestiere e che confronta costantemente il suo operato con i mezzi che gli sono messi a disposizione e i contesti in cui si trova a muoversi (è cosa ben diversa trattare un paziente nel vecchio manicomio o nel reparto di un ospedale civile che ha come prima urgenza che gli si liberino i letti il più presto possibile). Il suo è in primo luogo un racconto autobiografico, una carellata di vissuti e, da buon analista, di riflessioni su se stesso e su quello che gli sta intorno. Credo che questo, al di là del fatto che lui lo abbia voluto o meno, sia il modo migliore, il più incisivo, per descrivere quel periodo storico e analizzare il bene e il male di tutte quelle trasformazioni; e forse sta qui il maggior pregio del libro che inoltre, proprio per questo, si fa leggere, assume la forma del romanzo. Nel corso degli anni Cabibbe incontra personaggi incredibili, raccoglie tante storie, drammatiche o anche divertenti, ma sempre curiose e avvincenti; vicende di vita che si fanno raccontare, ma che fanno anche da test, mettono alla prova l’efficacia delle tante novità terapeutiche. La verifica giustamente si fa sul campo, nella prassi. Per cui, incredibilmente, il dato di realtà finiva per essere portato proprio da loro, i pazienti, interpreti di un mondo psicotico e incuranti delle mode del momento, sordi alle velleità ideologiche che li volevano vittime del capitalismo, o solo affetti da una malattia biologica, o portatori di messaggi esistenziali tutti da scoprire e condividere.

Raccolgo alcune frasi delle pagine finali. “La malattia mentale non è una malattia come le altre”, a commento della conclusione di due matrimoni, falliti perché il coniuge non poteva tollerare la psicosi dell’altro. “Sembra che il procedere per idealizzazioni e successive delusioni sia un processo inevitabile”, per descrivere le speranze che avevano accompagnato l’“apoteosi” del territorio e le tanto frequenti mortificazioni successive.

Cabibbe conclude il libro con due citazioni che mi hanno davvero sorpreso. Ne estraggo alcune frasi. Dal Manuale di Epitteto: “Sovvengati che tu non sei altro che attore di un dramma… Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro…”. E, sul versante opposto, dal Preambolo di Leopardi: “…è proprio degli spiriti grandi… far guerra mortale e feroce al destino…”

Ebbene, questi sono esattamente i due corni del dilemma in cui da anni mi dibatto anch’io. E mi domando allora: sono queste le riflessioni di due psichiatri che avevano fatto della loro attività professionale una missione e non possono che guardare ai risultati conseguiti con una certa delusione, o, più in generale, sono le riflessioni che fanno parte di ogni uomo che, giunto in tarda età, si gira indietro a considerare la sua vita, fra serenità ed accettazione, oppure con un “feroce” sentimento di rivalsa e ribellione? Vale la seconda ipotesi, è ovvio, ma colpisce che proprio due colleghi con analoghe esperienze di lavoro si trovino a fare le stesse considerazioni.

Per finire. Consiglio vivamente ai nostri allievi e a tutti coloro che incominciano questo difficile mestiere di leggere il libro. Ne trarranno più indicazioni di quanti non ne offrano tanti testi specialistici.

Per quel che mi riguarda vorrei che questo scritto facesse da apripista ad un dibattito, sulla legge 180 e su tanti altri temi. Ne accenno uno. Dove sono finiti i malati di mente? Sembra che siano scomparsi dall’immaginario culturale. Un tempo erano il tema principale di tutti i congressi, se ne scriveva anche sui giornali, erano oggetto di discussione nei salotti, al centro di un dibattito che destava l’interesse di tutti. Adesso non capita mai che se ne parli, l’argomento ormai non desta più l’attenzione di nessuno. Cosa è successo? Una volta chiusi i manicomi, se ne sono andati gli schizofrenici?

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