Naturalmente
ho molto apprezzato lo scritto di Roberto Carnevali sull’analisi abortita del
prof. Monti. Alcune tesi le ho condivise, altre no. Ma il punto di questo mio
breve intervento non è se io sono d’accordo con le considerazioni di Roberto,
ma di quale natura sono queste considerazioni. Sono considerazioni politiche
veicolate da metafore psicoanalitiche, oppure il sapere psicoanalitico e più in
generale psicoterapeutico svolge un ruolo sostanziale di chiarificazione?
In altri termini: Roberto impiega metafore psicoanalitiche per disquisire sic
et simpliciter di politica, oppure
tenta una psicoanalisi della politica italiana di questi ultimi mesi
disastrosi. Ebbene, io ritengo che lo scritto di Roberto sia essenzialmente di
ordine politico, mentre la psicoanalisi c’entra poco o nulla; essa svolge, per
così dire, un mero ruolo decorativo.
Con ciò non sto affermando che Roberto non sia capace di applicare la psicoanalisi
alla politica, tanto quanto è capace di applicarla ai suoi pazienti. Penso
piuttosto che la psicoanalisi non sia in linea di principio utilizzabile per
esaminare situazioni politiche. In fondo nemmeno Sigmund Freud ne era capace,
sebbene ci abbia provato più e più volte. Se rileggiamo attentamente testi,
peraltro magistrali, come Il disagio della civiltà ci rendiamo
conto che in realtà la psicoanalisi viene
impiegata da Freud non già come strumento per conseguire conoscenze, bensì come
un linguaggio per esprimere conoscenze che egli derivava da ordini di idee e da
discipline del tutto differenti ed estranee alla psicoanalisi.
La questione riguarda il riconoscimento dei limiti – un tema, questo, che è
naturalmente al centro della pratica psicoanalitica. Ma forse è umano e troppo umano che il desiderio
maniacale di andare oltre i propri limiti sia intrinseco alla natura umana. E
lo psicoanalista non è forse un essere umano?
Lo scopo elettivo della psicoanalisi consiste nel capire ed eventualmente nel
curare singoli essere umani o anche, ne sa qualcosa Roberto, gruppi di esseri
umani. Da questo punto di vista, della comprensione e della cura, essa è, a mio
parere, uno strumento inestimabile; certo a volte fallisce, può addirittura
arrecare del male al paziente piuttosto che del bene, ma al pari delle cure
fisiche, essa non potrebbe giovare al paziente se al tempo stesso non potesse
in circostanze diverse e sfavorevoli danneggiarlo.
Nella ormai lunga storia della psicoanalisi, sono stati fatti innumerevoli tentativi
di applicare la psicoanalisi alla politica, alla civiltà, alla guerra, all’arte
e chi ne ha più ne metta. Se l’autore psicoanalista è particolarmente
intelligente o brillante, i risultati sono ottimi. Solo due esempi: gli scritti
numerosi di Franco Fornari sulla malattia e la guerra, quelli di Heinz Kohut
sia sull’arte sia sulla politica, per esempio sul nazismo.
Soprattutto in Kohut mi è sembrato di rilevare l’elemento fondamentale e più desiderabile
che dovrebbe caratterizzare, a mio avviso, l’avvicinarsi della psicoanalisi a
materie che non sono di sua stretta competenza, come l’arte per l’appunto.
Questo elemento fondamentale lo esprimerei nei seguenti termini: lo
psicoanalista non dovrebbe mai
arrogarsi il potere di avanzare interpretazioni necessariamente speculative
intorno a argomenti che le sono essenzialmente estranee, dovrebbe piuttosto
imparare essa stessa e arricchirsi dalle grandi opere d’arte o dalle grandi e
piccole – la questione Monti è in fondo davvero piccola – tragedie della
storia.
Un’ultima osservazione di ordine puramente politico. Roberto sostiene che l’errore di
Monti è di aver perseverato nell’agone politico dopo il deludente risultato
elettorale di Scelta civica. Io credo viceversa che il suo errore sia di non
essere tornato alla sua prestigiosa università dopo la caduta del suo governo.
Che la decisione di ostinarsi nella politica dipenda non dico da un delirio ma
almeno da un forte sentimento di onnipotenza?
E con queste mie ultime parole di stampo clinico ho commesso anch’io l’errore
imperdonabile di usare la psicoanalisi a distanza, in absentia.
Guido Medri
Sono decenni che cerco di trasferire le categorie psicoanalitiche sul piano sociale e politico, a cominciare da un dibattito in auge nei primi anni ’70 sulla natura della coscienza di classe e da tempo sono arrivato alla conclusione che il transito dal piano privato a quello pubblico è uno strappo che porta ad una sorta di vertigine il cui esito è la confusione o la paralisi del pensiero. L’unica strada percorribile mi sembra quella di restare sulle generali e di trattare solo temi di amplissimo respiro; come il disagio della civiltà (Freud), o lo scontro-incontro fra natura e cultura (Fornari) o il diffondersi dell’economia narcisistica o la natura del’ideologia e la violenza della sacralità nella religione (Boheler) ecc. Se invece ci si sposta sul terreno specifico della politica si giunge inevitabilmente a conclusioni senz’altro intelligenti e interessanti, ma che non convincono e che si potrebbe tranquillamente sostituire con altre. Mi sembra che è quello che succede alle considerazioni di Carnevali che partono dalla metafora analitica di un’Italia sul lettino e di Monti psicoanalista. L’idea è affascinante, ma le obiezioni subito si accavallano. Ad esempio, Napolitano dove lo mettiamo? Oppure, chi è il malato che si voleva guarire, il sistema Italia (e allora ci vuole un amministratore o un economista), o il popolo italiano (e allora ci vuole un pedagogo)? E il Superio? Forse è anche quello da trattare perché è diventato persecutorio e allora l’azione di risanamento va portata fuori e si deve esercitare sulla Comunità europea e in particolare sulla Germania. Insomma ci troviamo subito a muoverci in una ridda di ipotesi e siamo nei guai. Mi riesce quindi davvero difficile sviluppare le ardite considerazioni esposte nello scritto. Mi sembra che Carnevali si sia identificato con Monti e lo abbia visto come il salvatore; e che poi sia rimasto molto deluso. Lo capisco benissimo, da decenni invochiamo qualcuno o qualcosa che trovi una soluzione al disastro del nostro paese. Per il resto, sono giunto alla conclusione che io di politica non capisco niente e quindi meno parlo e meglio è. In qualità di psicoanalista posso giusto dare qualche giudizio sulle persone, sugli attori che calcano la scena. Grillo mi appare come un ciclotimico. Sento dire che è in trattamento e possiamo solo sperare che lo psichiatra che lo cura ricorra a dei farmaci più incisivi. È una persona imprevedibile, distruttiva, molto pericolosa. Per quanto riguarda Bersani, l’ho sempre considerato inadeguato perché manca di leadership; adesso però devo aggiungere che è semplicemente un cretino. Non si può dire altro di un leader che non ha capito che oltre un quarto dei suoi parlamentari gli avrebbe votato contro. Berlusconi è un perverso geniale e potentissimo, da sempre sottovalutato dagli avversari. L’esperienza con pazienti di questo tipo porta ad una conclusione tragica: sono inanalizzabili, sempre vincenti e traggono la loro ragione di vita dal perseguimento della trasgressione.
Roberto Carnevali
Ritengo opportuno intervenire in coda ai due commenti per dichiarare la mia sostanziale condivisione del rilievo che viene fatto sul mio scritto, e dichiarare la mia intenzione a tutto tondo. Ho usato la metafora psicoanalitica per fare un discorso fondamentalmente politico, e mi auguro che nessuno abbia pensato che intendessi invece leggere attraverso la griglia psicoanalitica la situazione del paese. Chi ha letto qualcosa che ho scritto altrove può ritrovare questa modalità in altri miei lavori, dove sono partito a volte da una prospettiva opposta, leggendo argomentazioni di teoria psicoanalitica, o situazioni di teoria della clinica psicoanalitica, attraverso metafore che attingono alla musica, al teatro, al cinema o alla letteratura. E in tutti questi casi ho cercato di chiarire il mio discorso in merito alla psicoanalisi attingendo all’altra disciplina. Ad esempio, nel mio libro L’immaginario e il diavolo propongo l’idea del “contrappunto” come metafora di un’analisi che non pretende di essere interpretazione della realtà ma “costruzione”, da parte dell’analista, di una melodia parallela a quella del paziente, che procede creando una musica nuova che è il risultato della relazione tra i due; e anche l’idea della musica dodecafonica (che a differenza di quella classica non prevede la conclusione in una “consonanza” e fa della “dissonanza” un suo elemento costitutivo) come metafora dell’arbitrarietà della fine dell’analisi, nel senso di un incontro di due soggettività che concordano la conclusione senza parametri di riferimento riconducibili a una fine codificata. Porto anche l’esempio di Cimabue come “analista” di Giotto, che attraverso la relazione col maestro sviluppa il suo talento creativo arrivando a superarlo di gran lunga, col beneplacito di questo; all’opposto di Salieri, che a sua volta può essere visto come un “analista” che permette a Mozart di raggiungere forme espressive di gran lunga superiori alle sue ma, anziché compiacersene, cade vittima dell’invidia e distrugge l’altro non sopportando di essere da lui superato. Faccio un ultimo esempio con un mio scritto comparso sulla rivista Gruppi, che ho intitolato “La sindrome di Nichetti”, alludendo al regista Maurizio Nichetti e alla prima scena del suo primo film, Ratatataplan. In questa scena lo stesso Nichetti, anche protagonista del film, si presenta a un esame di selezione per un posto di lavoro, nel quale viene somministrato a tutti i candidati il Test dell’albero; Nichetti rovescia sul tavolo un fascio di pennarelli e disegna un albero coloratissimo e pieno di uccellini cinguettanti, che diventa un cartone animato su cui scorrono i titoli di testa del film; nella scena successiva si vede l’esaminatore che esce dalla sua stanza brandendo il suo disegno e chiede, con tono perentorio: “Chi ha fatto questo?”; timidamente Nichetti alza la mano e dice “Io!”, e l’esaminatore gli urla “Fuori!”, operando la prima e più certa selezione in negativo. Nello scritto parto da questa scena per descrivere una selezione a cui ho partecipato per un posto di supervisore, in cui mi sono sentito affetto da questa sindrome di mia invenzione, non resistendo alla tentazione di offrire un’immagine di un mio modo di fare supervisione (che è corrispondente alla mia realtà) affine al test dell’albero di Nichetti, ottenendo, dopo aver superato lo scoglio della prima selezione, di essere scartato perché non consono alle aspettative dell’istituzione che aveva bandito il concorso.
Appare evidente dagli esempi che ho fatto (e potrei farne molti altri, perché quest’uso della metafora mi è molto congeniale) che in nessuna circostanza ho la pretesa di applicare la psicoanalisi alla musica, al cinema, al teatro o alla letteratura, o viceversa, limitandomi a costruire percorsi paralleli dove l’una disciplina può servire ad offrire immagini chiarificanti per l’altra. Anzi, trovo che i tentativi che molti fanno di cimentarsi nell’impresa di psicoanalizzare un’arte o un campo del sapere o dell’operare umano siano null’altro che puri esercizi di stile che nulla portano di creativo sia alla psicoanalisi che alla disciplina coinvolta. E nella musica, nel cinema, nel teatro e nella letteratura ho sicuramente una competenza di gran lunga maggiore rispetto alla politica, dove la parola “competenza” nel mio caso sarebbe del tutto impropria. Sarei dunque veramente presuntuoso se pensassi di leggere una situazione politica con la griglia della psicoanalisi; ma sinceramente mi sembra proprio di non averlo fatto, e con l’intenzione consapevole di non volerlo fare. Ho voluto offrire qualcosa che potesse essere stimolante, o perlomeno uno spunto originale (e se non lo è stato me ne scuso) con una metafora che mi aspettavo nei fatti si sviluppasse in un senso e che invece, prendendo una via completamente diversa e per me inaspettata, mi ha indotto a procedere nel discorso e nella metafora, portandoli a un compimento nel quale ho voluto esprimere, come hanno còlto entrambi i commentatori, la mia profonda delusione.