Queste brevi riflessioni sul tema psicoanalisi e montagna traggono spunto sia dal seminario tenuto dal dott. Flegenhaimer presso il CTP il 10\12\12 dal titolo “Il percorso psicoanalitico”, sia alle lezioni del dott. Fiorentini presso l’INT a Milano.
Freud come riportato da Jones ( 1953) amava profondamente la montagna e molti dei suoi viaggi estivi erano in rinomate località alpine spesso italiane. Con tutta la famiglia si spostava anche per due mesi in villeggiatura al fresco delle montagne. Egli faceva lunghe passeggiate, raccoglieva funghi e contemplava i paesaggi. Molte sono le cartoline che invia ad amici dove il maestro nei paesaggi interiori descrive la bellezza dei paesaggi esterni. Vedi sito
Freud inoltre nel aveva utilizzato questa metafora per raccontare nel
Freud nell’interpretazione dei sogni del 1905 pag 473 o 118 racconta con grande franchezza un sogno in cui c’è una guida alpina che lo aiuta e lo soccorre portandolo sulle spalle in passaggio delicato
Certamente le metafore hanno grossi limiti: si corre il rischio di far diventare queste immagini delle forzature ma in ognuno di noi, soprattutto in me, che sono stato un po’ alpinista, possono fare risuonare qualcosa. Si sarebbe potuto usare anche la metafora del mare anch’esso ricco di suggestioni ( navigare a vela, il mondo subacqueo, gli abissi, le genti di mare) ma semplicemente mi appartiene di più quella della montagna.
Chiunque abbia fatto un’esperienza di analisi ed una qualunque gita di montagna con una persona più esperta di lui, credo e spero possa, da queste brevi note, sentire risuonare qualcosa dentro di sé.
Anzitutto userei la corda che lega la guida al suo cliente come metafora della relazione che lega il paziente all’analista: di che cosa è fatta questa corda? Si chiedeva il Dott. Flegenhaimer. Certamente il cuore del filo è il transfert, cioè nel senso piu’ ampio, la tendenza dell’uomo a stare in relazione con gli altri per rivivere e ripetere le proprie relazioni precoci. Ma questo filo rosso è molto difficile da trasportare nella metafora della montagna anche se non mancano le occasioni di ripetere nella relazione tra guida alpina e cliente delle relazioni della propria infanzia di idealizzazione, ad esempio quando la guida dice al cliente: guarda che non sono tuo padre! Oppure si può ben scorgere questa ripetizione nelle biografia di grandi alpinisti che ripetono continuamente esperienze di solitudine o di tradimenti di compagni di cordata e che non riescono, pur conquistando importanti montagne ad uscire da quel circolo vizioso, (penso alla storia di Bonatti ad esempio)
Dal mio punto di vista questa corda, esattamente come quella che si usa in montagna, è fatta anche di molti altri fili, ne ho qui descritti alcuni:
il filo della fatica: perché l’avventurarsi su una montagna, come avventurarsi in una analisi è sempre legato ad una fatica importante. Il corpo e la mente sono impegnati in uno sforzo teso alla conoscenza: la fatica fatta per raggiungere nuovi paesaggi, nuovi punti di vista. Raggiunta una vetta non ci si porta via nulla, non si conquistano degli oggetti ma sensazioni ed emozioni nuove che permettono un più alto respiro. Quasi sempre in montagna come in analisi una volta raggiunta una vetta ti accorgi che ce ne sono altre migliaia intorno a te, lo sforzo è dunque da un certo punto di vista vano, ma la fatica è comunque ripagata!!
il filo del piacere: perché dopo tanta fatica si condivide con qualcuno l’emozione di un’esperienza coinvolgente, che è stata a tratti travolgente, con avventure rischi e pericoli, ma quando si giunge alla fine si sente tutto il piacere che questa esperienza ha prodotto.
il filo del bisogno: perché il cimentarsi con la montagna è un bisogno quasi fisico per entrambi, per il cliente e la guida, come per l’analista ed il paziente. La guida come l’analista andrebbe in montagna comunque, anche senza clienti. Per il paziente c’è il bisogno forte di stare un po’ meglio mentre per l’analista è legato al proprio bisogno di prendersi cura di se stesso e dell’altro.
Il filo dell’affiatamento: perché nella coppia di alpinisti come nella coppia analitica deve crearsi pian piano quella necessaria empatia in cui la guida come l’analista deve allinearsi e conoscere il respiro dl paziente, dove la guida deve riuscire a sentire limiti e desideri, del cliente e suoi. La guida deve pian piano capire dove finisce i piacere per entrambi e rischia di diventare solo dolore (credo che abbiate tutti ben presente cosa si prova a seguire in montagna uno più allenato di te che ti porta in zone per te troppo rischiose ad una velocità che non si riesce a tenere e che ti fa solo pensare “ ma chi me lo ha fatto fare??” esattamente come interpretazioni azzardate, date in momenti in cui il paziente non è in grado di recepire.
Il filo dell’incertezza: perché il piacere della scoperta in montagna cioè il piacere di cercare cosa c’è dietro l angolo della montagna, dietro a quel colle o oltre quel sentiero battuto, corrisponde un po’ a quella capacità negativa dell’analista che attende di sapere cosa c’è dietro quel silenzio, quel viaggio nel conosciuto non pensato che trasforma ogni paziente in una avventura senza eguali. Quel filo fatto del piacere nel fare la stessa strada con persone diverse ed apprezzarne le differenze. È un po come fare la stessa gita in momenti dell’anno diversi, con la neve, in autunno, con il caldo torrido o in primavera mentre sbocciano i fiori o nella tempesta di vento, ecco che la relazione umana diventa un sempre nuovo, intimo ed autentico scambio di emozioni.
Il filo della verità: perche la montagna come la psicoanalisi non è finzione ma è vera e mette a nudo le nostre difficoltà ed i nostri limiti. A volte in modo molto crudo e tragico. Come in montagna ci sono dei morti anche in psicoanalisi ci sono delle vittime, pazienti che non si è riusciti ad aiutare e che sono finiti tragicamente. Questo è un filo fatto di elogio del ritorno: non basta portare su il cliente\paziente ma anzitutto bisogna essere in grado di riportarlo giù. In questa parte della metafora c’è tutto il discorso che riguarda l’ onnipotenza della guida\analista che si deve adeguare alle capacita del cliente perché gli incidenti avvengono molto spesso in discesa! Perché il paradosso sta nel fatto che una volta arrivato sulla punta della montagna non puoi più andare da nessuna parte. Puoi solo tornare indietro ed è lì che possono avvenire gli incidenti. Tornati al rifugio si può fantasticare di risalire su una nuova montagna, ma è molto pericoloso farlo in discesa: sei ancora di quella montagna che hai salito in quel momento, si dice che potrebbe sentirsi tradita. È un po come pensare mentre sei con un paziente, al paziente successivo.
Il filo della fiducia: perché senza quella non si va da nessuna parte, ne in montagna ne in analisi. Fare affidamento totale nell’altro in certi momenti di grande paura e difficoltà è indispensabile. Alcune grandi tragedie di montagna sono accadute proprio perché non c’era sufficiente fiducia tra la squadra di alpinisti.
Il filo del percorso: perché in psicoanalisi come in montagna si percorre un percorso circolare. Si parte da un punto, si esplora il territorio circostante, si tracciano delle mappe, si mettono degli ometti (sogni) che permettono di orientarsi e poi si torna a quel punto stesso di partenza ma cambiati dall’esperienza stessa. Tornare rinnovati nella fatica e nel pensiero, per rispettare la vecchia e mai tramontata idea che la meta è il viaggio stesso. Il percorso quindi come esperienza non inquinata da aspetti narcisistici, onnipotenti e vittoriani ma come autentica esperienza di percorso interiore con se stesso e con gli altri, non contro gli altri. In montagna come in analisi non è utile fare le gare se non contro se stessi. La montagna come l’analisi è l’elogio del limite come vera fonte di ispirazione, è un confronto continuo con le proprie manchevolezze. Così come nell’incontro analitico quelle che emergeranno come vere difficoltà saranno le situazioni in cui i limiti dell’analista emergono in tutta la loro franchezza. Ed è solamente lavorando duramente su questi limiti interni che analista e paziente possono nell’onda lunga fare un percorso che migliora entrambi. Come in montagna per migliorare le proprie performance e potere affrontare nuovi e più impegnativi percorsi è necessaria una dura e rigida disciplina ed allenamento. Certo non tutti i pazienti come non tutti i clienti mettono in difficoltà la guida\analista. Ma quando si decide di prendere in carico un paziente non si sa mai bene su che sentieri ci porterà.
Il filo della qualità nella formazione: la guida alpina deve avere fatto prima quelle stesse ascensioni accompagnato da un’altra guida esperta, deve avere provato sulla sua pelle come l’analista gli abissi delle vette e dell’anima ed i pericoli che essi nascondono. Certo non possono avere esplorato tutte le montagne, e certamente le guide come gli analisti, tendono a battere sempre i sentieri di casa, le piste più battute e sicure di casa, ma le gite più belle son poi quelle in cui capita quell’imprevisto che poi si riesce a superare insieme. Allo stesso modo come si diceva sopra è necessaria una dura e impegnativa formazione continua in psicoanalisi come in montagna. Ci sono nelle società delle guide come nelle società si psicoanalisi delle possibilità di chiedere aiuto ai colleghi nei momenti di bisogno.
Il filo del rispetto: perché è necessario avere un grande rispetto per la montagna e per la psicoanalisi, le genti umili ma solide che la popolano (il bel libro fotografico lassù gli ultimi) hanno delle tradizioni, sanno il valore delle cose, sono di poche parole, ti danno l’anima e proprio per questo non puoi tradirle.
Il filo dell’onorario: come in psicoanalisi, la guida la paghi lo stesso, sia che tu raggiunga la meta, sia che tu la passi in rifugio sia che tu non ce la faccia per qualsiasi motivo, vuoi per il brutto tempo, vuoi per gli impianti chiusi per vento. La giornata la paghi ugualmente esattamente come anche se non vai in seduta la paghi lo stesso.
Il filo della pazienza: perché entrambi, analista e guida devono avere la pazienza di aspettare a lungo il momento giusto nel fare la gita, magari annoiandosi in rifugio, attendendo fiduciosi la finestra meteo o rimandando la gita parecchie volte o spesso sapere anche rinunciare alla gita stessa. Allo stesso modo l’analista deve pazientemente aspettare il momento giusto per prendere un paziente in analisi, non deve avere fretta a prenderlo in carico a qualsiasi costo, magari perché è lui che ha bisogno di quel paziente in quel momento.
il filo della lentezza: perché la montagna come la psicoanalisi, richiede molte lentezza. Le montagne sono le stesse da migliaia di anni, come certi problemi dell’uomo sono gli stessi dell’antica Grecia, il senso della vita della morte, dell’amore. E’ vero che c’è una cambio della tecnologia, dei materiali, un’evoluzione del pensiero analitico ma le montagne sono sempre le stesse, sono alte uguali, il dislivello che devi fare è sempre lo stesso. Come nell’800 ci volevano tre giorni di carrozza tra Vienna e Praga ora ci vuole solo un’ora di aereo ma la sonata k 380 di Mozart dura sempre 29 minuti nell’ottocento come adesso. Per cui certe cose non le puoi accorciare, accelerare. Gli analisti sono di trailer (percorsi lunghi e lenti) più che degli sky runner. Nei trail e in particolare negli ultra trail non si premia il vincitore ma chi riesce a finire il percorso nei suoi tempi, molto spesso quando il primo arriva la maggior parte di concorrenti è ancora a metà del percorso. Si premia dunque il cosiddetto il finisher, e cosa straordinaria hanno tutti lo stesso identico premio dal primo all’ultimo, in genere un gilet di pile.
il filo della solitudine, perché a volte in montagna come nella stanza di analisi ci si sente soli ed è anche bella sensazione di liberta e autonomia ma sappiamo che nasconde anche grandi pericoli. Non siamo mai del tutto soli, ne in montagna ne in analisi, sappiamo che possiamo chiedere aiuto prima che sia troppo tardi, sappiamo che possiamo affidarci ad un soccorso alpino, ad un elicottero che può venire ad aiutarci, ma dobbiamo avere l’umiltà di chiederlo.
Il filo dei grandi maestri perché come i padri della psicoanalisi anche i grandi alpinisti come Wimper, Messner, Bonatti che hanno rischiato la loro vita per inseguire delle vie o delle pareti finora inesplorate e considerate invincibili perche piene di fantasmi o demoni o pericolosissime per l assenza di ossigeno. In realtà come i grandi maestri della psicoanalisi hanno creduto fortemente in un sogno ed hanno rischiato la propria vita per dimostrare che esso era realizzabile.
Infine trovo anche affascinante questa metafora per quel che può aiutarci nel vedere la differenza che c’è tra lo psicoanalista e psicoterapeuta che a parer mio è la stessa che c’è tra guida alpina e maestro di sci. Entrambi lavorano in montagna entrambi con dei clienti, entrambi aiutano qualcuno ad imparare qualcosa di nuovo magari li portano anche in fuori pista, ma si occupano di aree diverse di esplorazione. Ed allo stesso modo tutte le guide alpine sono anche maestri di sci mentre nessun maestro di sci può fare la guida.
In ultimo trovo interessante la similitudine della difficoltà a raccontare la montagna simile alla difficoltà a raccontare la propria analisi. Trovo che raccontare in un libro la propria esperienza di analisi e’ un po come volere raccontare il proprio Ultra trail del Monte Bianco cioè è letteralmente impossibile. Non esistono parole adeguate per esprimere queste straordinarie esperienze umane. Chiunque provi a scrivere questi racconti si va a cacciare in un gran bel guaio. Come narrare l’inenarrabile?
I numeri della gara non riescono a rendere giustizia, immaginare di salire e scendere l’Everest in una distanza pari a quattro maratone consecutive potrebbe tentare di dare un’idea ma non è così. Così come dire i numeri della propria analisi: 8\10 anni a quattro sedute la settimana per un totale mal contato di migliaia di sedute, migliaia di strette di mano, decine di natali, di vacanze, nascite, morti, insomma la vita nel mezzo, dove si sono affrontati le emozioni più diverse e le fantasie più inquietanti non rendono giustizia all’esperienza.
L’ultra trail del monte bianco come la propria analisi attraversa i nostri luoghi più lontani da ogni civiltà, immersi nella più sconvolgente natura, relegati nella solitudine più profonda eppure sempre in compagnia di qualcuno. Di notte, sotto la luna, sotto la pioggia, di giorno, sotto la neve ed il vento in un contatto intimo con la natura che, come il lettino, favorisce il contatto più profondo con il proprio sé e con le persone che permettono ai concorrenti di fare questa straordinaria esperienza.
I luoghi più sperduti e terribili di questa gara, obbligano queste donne e questi uomini come in una analisi a scontrarsi con le proprie fragilità, con i propri limiti, coni i propri legami più cari. L’ultra trail è un’esperienza che sforza enormemente il fisico ma soprattutto lo psichico e ci mostra come sia la mente quella che viene maggiormente sollecitata e stimolata. Nel racconto del proprio trail come della propria analisi mente e corpo, realtà e ricordi si alternano e si confondono come nei sogni.
Solo aggettivi dal significato opposto possono cercare di descrivere queste due esperienze: titanico e miserabile, straordinario e semplice, angosciante e sublime, abissale ed elevato; tutti questi aggettivi coabitano insieme e si intrecciano tra loro come edere inestricabili salgono sullo stesso muro. Quello della esperienza umana.
I corridori degli Ultra trail sono uomini liberi e contemporaneamente forzati della fatica. Come i pazienti in analisi si sentono ad ogni seduta più liberi ma anche dipendenti ed obbligati a continuare il percorso. Questi corridori sono eroi titanici e allo stesso tempo poveri miserabili costretti a trascinarsi tra le montagne. Come i pazienti sono persone sane nel confrontarsi con i loro limiti ed anche folli forzando loro stessi in una fatica estrema. Come i pazienti in seduta, i corridori sono uomini isolati e totalmente immersi nella natura eppure allo stesso tempo in contatto stabile e continuo nella loro mente con gli altri corridori, con i volontari, con le loro famiglie, con il loro mondo.
Come fare a descrivere in un solo racconto questo paradosso?
Come riuscire a condensare tutto questo in un racconto? Pochi alpinisti scrittori così come pochi analisti (Freud è certamente tra questi) con la spontaneità e la semplicità del sogno riescono a trasformare l’indicibile in raffigurabile. I bei racconti di montagna sono esattamente questo: la trasposizione verbale di una esperienza onirica. Esattamente come i sogni sono archetipi, prototipi di esperienze condivisibili in analisi, alcuni racconti di montagna riescono a rendere poeticamente fruibile ad altri quell’esperienza unica ed incredibile che è l’ultra trail: in questi racconti come nei racconti di una analisi appaiono quanto di più vicino e contemporaneamente quanto di più lontano ci sia dalla vita quotidiana.
Obiettivo di queste pagine è cercare di abbandonare e rinunciare a un pensiero romantico della vetta vista come meta ultima nella lotta con l’alpe, così come abbandonare l’idea romantica della psicoanalisi come panacea di tutti i mali.