Questo lavoro ha dato luogo a una revisione critica da parte dell’autore, contenuta in “Postilla a ‘Narcisismo sano?’ e ad ‘Amae nella clinica’”, Pratica Psicoterapeutica n. 11 - 2/2014.
Il tema del narcisismo sta prendendo sempre più corpo sulla nostra rivista, e colgo l’occasione della replica di Marcantonio Di Palma (che compare su questo numero della rivista) al mio scritto “Narcisismo sano?” (comparso sul numero scorso) per approfondire alcuni temi che Di Palma giustamente rileva essere da me solo accennati, o addirittura non proposti pur essendo nell’ambito di un mio specifico campo d’interesse. Mi sono reso conto che la brevità del mio scritto ha suscitato inoltre alcuni fraintendimenti, rispetto ai quali Di Palma propone rigorose precisazioni di cui prendo atto, e conto dunque di rimediare anche a questo aspetto, proponendo un discorso articolato e, spero, chiaro, col quale si potrà sicuramente dissentire ma che almeno sarà espresso in un modo che, nei limiti del possibile, non dia luogo a rilievi di ambiguità.
Il mio discorso si articola su tre punti:
1) Una lettura del narcisismo in chiave relazionale fondata sulla bipolarità “idem-autòs”.
2) Una lettura del narcisismo nella quale si considera fondamentale la presenza in ciascun soggetto di una potenziale propensione al costruire e ad entrare nella dimensione del “noi”.
3) Il mio dissenso dal pensiero di Otto Kernberg.
Per chiarire il significato della bipolarità “idem-autòs, cito un passo del mio libro L’immaginario e il diavolo [1], in cui affronto diffusamente questo argomento (all’interno di questo brano è presente un’ulteriore citazione dal libro di Diego Napolitani Individualità e gruppalità):
La bipolarità composta da idem e autòs rappresenta uno dei punti nodali del pensiero gruppoanalitico. Il parallelismo tra tale modello e quello rappresentato da immaginario e simbolico è grande, e a un occhio superficiale potrebbe apparire esserci una quasi coincidenza, rappresentando l’idem e l’autòs concetti ricchi di maggior pregnanza in relazione alla soggettività, e l’immaginario e il simbolico invece essendo incentrati meno sull’individuo e più sulla dimensione degli universi relazionali.
Credo che invece le differenze ci siano e siano rimarchevoli, e cercherò di evidenziarle nel discorso che segue.
Nel definire il concetto di idem Napolitani fa un largo uso del termine “immaginario”:
Le unità connettive elementari tra segmenti di espressività e segmenti di impressività desiderante si strutturano quindi in immagini che nel loro depositarsi nella memoria del bambino costituiscono il fondamento della sua identità identificatoria. Questa identità di natura connettiva tra il proprio e l’altrui è l’idem del sé stessi, in qualche modo contrapposto al proprio autòs, ma è solo nel congiungimento con questo idem, strutturalmente immaginario, che l’autòs è fonte di concepimento di simboli compiuti, concreti. Le unità immaginarie sono quindi unità connettive senza essere però ancora simboli nel senso pieno, ed è per queste considerazioni che do a queste unità il nome di unità protosimboliche. L’idem è quindi un’istituzione nel senso forte del termine, quel luogo che istituitosi diventa mondo interno, che l’autòs continuamente germinativo deve poter penetrare ogni volta che la sua nuova espressività emerge [2].
Questo discorso somiglia molto da vicino a quello citato a p. 91 [p. 121 e-book] di questo libro. In entrambi i passi citati abbiamo un rapporto figura-sfondo in cui un elemento (l’autòs) può spiccare grazie al substrato supportivo rappresentato dall’altro (l’idem), con in più la prospettiva della presenza in quest’ultimo di “unità immaginarie” che sono gli elementi cui attinge l’autòs per operare creativamente. In un altro passo, parlando di continuità e discontinuità Napolitani propone l’autòs come elemento di “rottura” (discontinuità) rispetto alla continuità dell’idem. Nel brano citato qui si parla poi di “unità immaginarie”, definite come “protosimboliche” perché non sono ancora simboli, finché non vengono in qualche modo riconnesse creativamente dall’autòs. Se possiamo vedere queste unità come delle biglie colorate, possiamo allora dire che mentre l’immaginario è definibile come l’insieme di queste biglie, l’idem è il sacchetto che le contiene. Con questo voglio intendere che mentre l’idem, che struttura l’identità, si manifesta comunque come spazio interno non solo confinato ma anche confinante, l’immaginario ha in sé possibilità più articolate, date dalla presenza di forme colorate che aspettano l’intervento di un soggetto simbolizzante per potersi manifestare.
A livello intersoggettivo la differenza si fa ancor più evidente, e possiamo rappresentarla nel confronto fra la situazione di due persone che si declinano vicendevolmente le generalità e quella di due pittori o musicisti di scuole diverse che si mostrano l’un l’altro le loro opere. Nel secondo caso esiste la possibilità che almeno uno dei due rimanga colpito dai lavori (dalle immagini) dell’altro, anche se costui non è magari niente più che un disciplinato allievo di un maestro che lo ha istruito passo dopo passo, e che ne nasca dunque un’esperienza che risulti comunque feconda e trasformativa. In altri termini, mentre da un confronto fra idem non può che nascere un gioco ripetitivo nell’ordine del “già noto”, un confronto fra mondi immaginari non necessariamente conduce a percorrere strade ripetitive, potendo comunque rappresentare un mondo di “novità” dato dall’imbattersi in immagini che a uno dei due soggetti, o ad entrambi vicendevolmente, possono risultare inconsuete.
In questo discorso, oltre a definire, per chi non la conosce, la bipolarità idem-autòs, mi pongo in una prospettiva che fonda la mia critica al concetto di “narcisismo sano”. Come molti sanno, e più volte ho detto anche su questa rivista, nel mio lavoro terapeutico considero elettivo il setting gruppale, in quanto, rispetto al discorso or ora proposto, favorisce la situazione di confronto fra mondi immaginari dei vari membri del gruppo, e dunque fra le loro identita pre-scritte, amplificandole nella dimensione del costituirsi di un “noi”, che è qualcosa di più della somma delle varie identità dei soggetti, pur con le trasformazioni subentrate in ciascuna di queste. Si costituisce un’identità di gruppo che rappresenta la possibilità di un “essere gettati nel mondo”, che accompagna il soggetto nella sua possibilità creativa di ri-connessione simbolica.
Apro ora un’apparente digressione, che riconnetterò fra poco al discorso che sto proponendo. Una tipologia di pazienti alla quale molti terapeuti tendono a cercare di rinforzare quello che viene chiamato “narcisismo sano”, sono coloro che ritengono di essere propensi (a volte sono loro stessi ad usare questo modo di esprimersi) “a pensare più agli altri che a sé stessi”. Costoro vengono sollecitati a “volersi più bene”, si cerca di rinforzare la loro autostima, e arrivano a ritenere di aver fatto un passo avanti nella terapia, e nella vita, quando riescono a “fregarsene” un po’ di più degli altri e a pensare un po’ di più a sé stessi. Tutta quet’operazione avviene all’insegna del rinforzo del cosiddetto “narcisismo sano”.
Dal mio punto di vista, questo tipo di pazienti, o meglio di persone, perché molti non si rivolgono mai a uno psicoterapeuta e mantengono imperterriti questo stile di vita, sentendosi molto nobili e ritenendo di essere in credito nei confronti del mondo perché hanno molto dato e poco avuto, sono caratterizzati da una dose estrema di narcisismo, e vivono perennemente nella condizione del boy scout che obbliga la proverbiale vecchietta ad attraversare la strada perché devono fare la loro buona azione quotidiana, anche se la vecchietta non deve attraversare e non sempre ha la presenza di spirito di prenderli a colpi d’ombrello. Cercare di rinforzare il loro “narcisismo sano” è a mio avviso un’operazione fuorviante, che non fa che colludere con l’immagine sacrificale che hanno di sé stessi, a scapito della possibilità di occuparsi veramente dei bisogni degli altri, cominciando ad ascoltare i segnali che il mondo manda loro. Questi soggetti vedono gli altri solo in funzione di un’immagine di sé da alimentare in continuazione; sono proprio nella situazione di Narciso che si specchia, si contempla, e cerca di essere sempre così “bello”, fuori e dentro. In termini strutturali, potremmo vederli come continuamente in contatto con un Ideale dell’Io ipertrofico, che diventa un Super-Io rigidissimo, che li costringe ad essere forzatamente “buoni” senza provare un reale sentimento d’amore per nessuno, essendo gli altri solo uno strumento per la propria beatitudine.
In una prospettiva totalmente relazionale, quale è la mia, l’incontro con l’altro è il fondamento della vita, e la fonte di ogni possibile trasformazione. La situazione che descrivo nel passo citato, di mondi immaginari come insiemi di palline di vetro colorate contenute nell’involucro dell’idem, che possono essere messi a confronto fra soggetti che si invitano vicendevolmente ad un confronto, è il fondamento dell’emergere dell’autòs. E perché l’autòs possa emergere è necessario rinunciare al narcisismo in tutte le sue forme, smettere di rivolgersi alla propria “immagine allo specchio”, e aprire il proprio sguardo e il proprio ascolto alle sollecitazioni reali che le persone del mondo ci offrono.
In questa prospettiva voglio ribaltare un altro concetto che spesso viene proposto come criterio fondante della psicoterapia, e che consiste nell’idea che non è possibile voler bene agli altri se non si vuole bene a sé stessi; alla luce di quanto fin qui detto ritengo di poter affermare che non è possibile voler bene a sé stessi se non si vuole bene ad altri, intendendo non un generico atteggiamento di altruismo salvifico (che, come ho detto, mi sembra derivare da un estremo narcisismo), ma la capacità di provare sentimenti d’amore e di rischiare i propri sentimenti, mettendosi in gioco in relazioni significative che fondano i processi trasformativi, e dunque risultano il miglior modo per fare del bene a sé stessi.
E così vengo al secondo punto. La mia posizione radicalmente negativa nei confronti del narcisismo non nasce dall’idea che ci sia una naturale propensione all’egoismo e che ci si debba sforzare di socializzare, ma al contrario dall’idea che andare verso gli altri sia espressione di qualcosa di radicato nella natura umana, e che le esperienza relazionali che facciamo possano favorire questa propensione oppure inibirla, enfatizzando la dimensione narcisistica. E qui si aggancia il discorso della madre biofila o necrofila di cui altrove, anche recentemente, ho trattato [3].
Con questo spero di aver offerto un chiarimento rispetto a ciò che dice Di Palma parlando di “accettare o meno la possibilità in via teorica dell’esistenza di un’energia vitale individuale che permetta ai nuclei del Sé frammentati presenti alla nascita di acquisire una coesione. Coesione che a sua volta spingerà verso ambizioni sane, ideali, valori, interessi e tutte quelle tensioni che riguardano talento e capacità personali (Teoria del doppio asse, Kohut, 1971)”. Ritengo che quest’energia vitale sia uno degli elementi essenziali della natura umana, ma ritengo anche che per permettere “ai nuclei del Sé frammentati presenti alla nascita di acquisire una coesione” non ci sia altro che il rischio del porsi in relazione collocandosi al di fuori di una dimensione narcisistica. E qui apro un piccolo inciso sull’uso del termine “patologico” riferito al narcisismo, uso che non mi è congeniale, e che non vuole in alcun modo avallare l’idea della patologia narcisistica come patologia per antonomasia.
Solo, e qui vengo al terzo punto, l’uso dell’attributo di “patologico” mi è suggerito dal titolo di un’opera, ormai di molti anni fa, di Otto Kernberg, Sindromi marginali e narcisismo patologico. In “Narcisismo sano?”, nel numero scorso della rivista, mi riferisco a Kernberg dicendo che dissento da lui perché parla di “narcisismo patologico”, e in questo dà per implicita l’esistenza di un narcisismo “sano”, e proseguo dicendo che invece il narcisismo è per me solo patologico, perché non può prescindere dalla dimensione di distruttività. Se vogliamo eliminare il termine “patologico” per me va benissimo. Diremo che a fronte dell’idea di un narcisismo sano che ha in sé qualcosa di costruttivo, propongo l’idea forte di un narcisismo solo distruttivo, ritenendo che la costruttività si dia soltanto nell’aprirsi alla relazione e nell’accogliere l’altro da sé.
Il mio dissenso da Kernberg è però ben più articolato. E spendo ancora due parole per approfondirlo, perché ritengo che da questo approfondimento si abbia un ritorno anche sul discorso fin qui sviluppato.
Proprio il libro citato, Sindromi marginali e narcisismo patologico, è una giustapposizione di due saggi, l’uno sul narcisismo, l’altro sulle cosiddette “sindromi marginali”, altrimenti chiamate “border-line”. Nei primi anni ottanta, a Milano, nell’ambito dei seminari dell’associazione “Psicoterapia critica”, fondata e presieduta da Enzo Morpurgo, tenni un ciclo di incontri sulla “sindrome border-line” mettendo a confronto il pensiero di Kernberg con uno scritto di Karl Abraham in cui veniva tracciato il confine tra la nevrosi e la psicosi sulla linea di demarcazione fra la prima e la seconda fase anale [4]. Questa divisione delle fasi in sottofasi è di Abraham stesso, e in particolare le due sottofasi anali sono caratterizzate dalla dimensione dell’espellere (la prima) e del trattenere (la seconda), e rappresentano, in una visione evolutiva della libido, i punti di fissazione della psicosi maniaco-depressiva (espellere) e della nevrosi ossessiva (trattenere). La sindrome border-line sarebbe dunque l’essere collocati su una linea di confine tra la nevrosi ossessiva e la psicosi maniaco-depressiva, potendo il soggetto regredire nella dimensione psicotica o progredire in quella nevrotica alternando le modalità difensive caratteristiche delle due dimensioni. Anche se oggi la prospettiva radicalmente relazionale mi induce a non fare più uso di una terminologia legata alla storia evolutiva della libido, continuo a ritenere (dopo trentacinque anni di lavoro in psichiatria) molto più feconda una lettura della condizione border-line come una posizione su una linea di confine piuttosto che come un’area (perché non diciamo “border-space”?) nella quale da molto tempo vengono inscritti modi di essere disparati che hanno poco o niente a che fare l’uno con l’altro (una battuta abbastanza diffusa in ambito psichiatrico dice che “una diagnosi di ‘border’ non si nega a nessuno”). Se il mio dissenso da Kernberg allora era solo relativo a quest’aspetto, nel corso degli anni si è sviluppato sempre più, per una caratteristica che ha accompagnato quest’autore per tutta la vita: il farsi depositario di una visione medico-nosografica della psicoanalisi, cercando di tracciarne un’immagine obiettivabile, arrivando a codificare anche i sentimenti e le emozioni (e dunque l’empatia, per me strumento principe della psicoterapia) in vista di un buon utilizzo di questi come strumenti di lavoro. Quando ho avuto modo di ascoltarlo di persona, nella lezione magistrale che ha tenuto il 13 ottobre 2012 al XVII INTERNATIONAL FORUM OF PSYCHOANALYSIS, Mexico City, Mexico, October 10 - 13, 2012, ha confermato ai miei occhi questa sua immagine, sostenendo che perché la figura dello psicoanalista acquisti una rilevanza maggiore deve modellarsi su quella medica, garantendo una formazione con caratteristiche di oggettività inoppugnabile. Non stupisce che in questa visione delle cose anche il narcisismo diventi null’altro che un termine, utilizzabile in modo pragmatico secondo una visione nosografica che lo renda il più possibile efficace in termini diagnostico-terapeutici.
Probabilmente la stragrande maggioranza di chi leggerà questo mio lavoro concorderà con questa visione delle cose, e non me ne stupisco: anche rispetto alla sindrome border-line sono pochissimi a pensarla come me; comunque io ci provo. Se qualcuno trova in quello che sto dicendo qualcosa di sensato, o anche solo si può sentire sollecitato a rimettere in discussione ciò che riteneva una verità inoppugnabile, avrò raggiunto lo scopo di aprire un dibattito su qualcosa che è comunque ben lontano dall’essere definito una volta per tutte. Né io pretendo di farlo proponendo una visione radicale del narcisismo, che a qualcuno può sembrare avere la pretesa di una verità rivelata.
Un ultimo punto riguarda, brevemente, un rilievo fatto da Di Palma in merito all’amore di Narciso per la ninfa Eco. L’eco, che nel linguaggio comune ha la caratteristica di essere femminile al singolare e maschile al plurale (gli echi) [5], è il ritorno al soggetto della sua voce. L’amore di Narciso per la ninfa Eco, dunque, lungi dall’essere un amore con caratteristiche umane, è un corollario dell’amore narcisistico comunemente inteso. Narciso è così preso dall’amore per se stesso da non potersi innamorare d’altro che di chi gli parla facendogli ritornare la sua voce. E questo non è altro che la negazione dell’amore e di qualunque relazione con l’altro da sé.
[1] Carnevali R. L’immaginario e il diavolo – Prospettiva relazionale e setting gruppale in psicoanalisi, FrancoAngeli, Milano, 2003 p. 121, nuova edizione e-book: Arpanet, Milano, 2012, p. 157.
[2] Napolitani D., Individualità e gruppalità, Boringhieri, Torino, 1987, p. 216.
[3] v. Carnevali R. “Amae nel binomio necrofilia-biofilia. Un parallelismo tra il pensiero di Takeo Doi e quello di Erich Fromm”, in questo stesso numero della rivista.
[4] Abraham K. (1924) “Tentativo di una storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici”. Opere, Vol. 1. Torino: Bollati Boringhieri, 1975.
[5] Azzardo un’ipotesi interpretativa di questo fatto: l’accoppiamento con il ritorno della propria voce può mantenersi all’interno di un’alterità negata, conservando l’immagine di un femminile nel quale ci si rispecchia, mentre un insieme di voci configura comunque un gruppo, nei confronti del quale l’alterità non può più essere negata, e che rende necessario il confronto con i membri che lo compongono (il maschilismo non c’entra: non esistendo nella lingua italiana il genere neutro, la pluralità indifferenziata vuole il maschile; dicendo “gli uomini...” si intendono gli esseri umani, anche di sesso femminile).