Alcune riflessioni su “Alcune riflessioni...”
Secondo Giacobbi
Faccio presente a Simona Fassone, la cui introduzione al caso clinico ho letto con piacere e partecipazione, che non è che si riesca sempre meno a fare una psicoterapia psicoanalitica “buona”, quanto che si riesce sempre meno a praticare una psicoterapia organizzata secondo il setting tradizionale, ma credo che fosse questo che Simona intendesse.
Quanto al carattere ed alla natura “analitici” dei nostri trattamenti, essi sono determinati, più ancora che dalle procedure di setting, pur fondamentali, dal nostro assetto mentale e interno, organizzato e strutturato in senso analitico, anche quando ci poniamo in un'ottica di sostegno, o di consulenza, o persino orientata operativamente in termini comportamentali come a me qualche volta capita di fare. Detto questo, il lettino e almeno due sedute settimanali consentono certamente al paziente un'esperienza più profonda e più profondamente elaborativa e trasformativa di lavoro su di sé nella relazione con noi.
Certo, come dice Simona, i pazienti di oggi vorrebbero risolvere magicamente e con poco impegno i loro problemi. Ma ciò non dipende solo dalla diffusa patologia narcisista, quanto anche dal contesto culturale, che è, a sua volta, narcisistico, e quindi più di ieri refrattario al modo psicoanalitico di pensare la realtà, la relazione e la cura. È anche per tale contesto che l'ambiente medico-psichiatrico ci è ridiventato, per lo più, ostile. Qui però occorre essere chiari e dire che noi psicoanalisti dobbiamo, senza arroganza, ma con decisione batterci contro tali possibilità, che appunto “magicamente” contrappongono alla psicoanalisi le facili lusinghe delle terapie brevi. Che strano! Se l'insegnante di lingue straniere propagandasse corsi brevi di apprendimento della lingua la giudicherebbero tutti un ciarlatano. E così se un fisioterapista reclamizzasse una sequenza ridottissima di sedute di fisioterapia, o se un istruttore di palestra promettesse un fisico da palestrato con un corso di poche ore. Curiosamente, invece, proprio laddove ci troviamo di fronte alla materia più delicata e dolente, il disagio psichico, si reclama e si propaganda la possibilità di interventi risolutivi. Dobbiamo contrastare tale illusoria faciloneria! Detto questo, serissime ragioni sociali, ci dovranno anche indurre ad accettare di lavorre in condizioni affrettate e inadeguatamente strutturate. Si dovrà però sapere, e lo dovranno sapere i pazienti a loro volta, che “poco e bene stan male insieme”. Conosciamo tutii le difficoltà delle psicoterapie a mono-seduta, di cui Fassone parla efficacemente. Possiamo però, seppur con fatica, educare il paziente a cooperare in un orientamento mentale che veda anche oltre gli accadimenti spiccioli della settimana. Ma qui dovrei affrontare alcune questioni di tecnica del trattamento psicoanalitico “once a week”, che è un trattamento certamente molto più difficile, oltre che meno gratificante, del trattamento “classico”. Cosi come è certamente molto difficile la cosiddetta terapia di sostegno, che può essereelettiva per alcune situazioni e, a sua volta, se orientata in senso analitico, esige un suo approccio tecnico, ben diverso dalle terapie di sostegno non analitiche, così basate sulla rassicurazione, la suggestione, la manipolazione, la direttività; tutte cose che noi analisti non possiamo escludere in linea di principi, ma che cerchiamo di limitare il più possibile.
C'è però un ultimo punto: esiste comunque, al di là della patologia personale e sociale, una resistenza intrinseca alla relazione analitica, che Simona Fassone un po' idealizza. Tale resistenza è ubiquitaria e rende comunque difficilmente proponibile un percorso ananlitico sul lettino, per molti anni e con almeno 2/3 sedute settimanali. Non è stato difficile per Simona, per me e per noi analisti identificati in modo idealizzato e talora compiacente, con la funzione e l'istituzione psicoanalitica. Ma lo è, e lo è moltissimo, per i pazienti comuni. A loro noi offriamo una relazione certamente straordinaria, per certi versi, inprontata a verità e libertà, valori oggi però in disuso più di ieri. Ma offriamo anche una relazione dolorosa, frustrante, umiliante e, diciamola tutta, una relazione “mercenaria” e tuttavia resa libera e veritiera proprio in paticolare proprio da questa sua caratteristica ma di ciò si può e si deve parlare con i pazienti.
L’amaro della psicoterapia
Alfredo Civita
Tutti noi della redazione di Pratica psicoterapeutica siamo stati d’accordo che valesse davvero la pena di proporre un breve commento all’introduzione di Simona Fassone al caso clinico illustrato nella sezione clinica. Esporrò pertanto alcune veloci osservazioni su un tema decisamente cruciale e stimolante del suo testo: non il dolce della psicoterapia, giacché seppure raro il dolce lo conosce chiunque faccia con serietà questo mestiere. No, il punto intrigante dello scritto di Simona è l’amaro della nostra professione, e preferisco mantenere questo termine metaforico, per evitare parole analiticamente più pesanti come delusione, frustrazione, dolore, burnout.
Se esiste la possibilità di un dolce piacere, deve necessariamente esistere la possibilità di esperienze amare – per il terapeuta non meno che per il paziente. In tal senso possiamo ben dire che la psicoterapia psicoanalitica o la psicoanalisi tout court è una cura in senso proprio in quanto può produrre benefici ovvero, per le più diverse circostanze, può arrecare un danno al malato. Quando ai nostri pazienti sfugge, e non accade di rado, di chiamare chiacchierate le sedute che facciamo, questo mi sembra precisamente il segno della consapevolezza di poter ricavare dal terapeuta benessere oppure malessere, dolore, peggioramento. Una chiacchierata non può far male a nessuno, e l’uso di questo termine rassicurante è dunque sempre il segnale di una resistenza a esporsi al benessere o al malessere.
Fatte queste premesse, entro nel merito della riflessione di Simona Fassone. Quanto all’amaro di cui essa parla, vi sono due tesi che non condivido e che vorrei discutere rapidamente ma al tempo stesso con un minimo di profondità. La prima nasce da una mia ben precisa impressione: che Simona abbia una visione idealizzata della psicoanalisi. Nel senso che, se capisco, e faccio qui riferimento anche al caso clinico da lei presentato, Simona immagina un trattamento psicoanalitico che vada realmente fino in fondo, debellando ogni resistenza, portando l’esplorazione dell’inconscio sino ai più oscuri meandri. Francamente non credo che Simona pensi davvero a questo, a una cura che immunizzi il paziente da ogni recidiva, non posso pensarlo, tuttavia il tema mi offre il destro per ricordare che il vecchio Freud, nel suo ultimo capolavoro, Analisi terminabile e interminabile (1937), mette in guardia gli analisti proprio da questo pensiero idealizzante: esiste una non scalfibile roccia biologica che, in linea di principio, impedisce che l’analisi vada fino in fondo, fino ai confini ultimi dell’inconscio, introducendo in tal modo nel paziente un vaccino capace di prevenire ogni ricaduta vita natural durante.
La seconda tesi di Simona che non condivido, la introduco citando le sue parole: “Ci troviamo sovente di fronte a persone che, pur essendo sofferenti, infelici, insoddisfatte, sono poco disposte a mettersi in gioco quanto basta”.
Chiunque svolga la professione di psicoterapeuta ha vissuto più e più volte, ne sono sicuro, l’amara esperienza di avere di fronte a sé, e non certo sul lettino, pazienti che appartengono alla tipologia descritta da Simona. Inizio il mio discorso sollevando un problema su un’affermazione di Simona: cosa significa essere disposti “a mettersi in gioco quanto basta”? Devo richiamarmi ancora una volta a Sigmund Freud, al Freud degli Studi sull’isteria (1892-1895). Nell’ultimo capitolo del volume, scritto dal solo Freud e di certo non condiviso da Breuer, egli osserva che il requisito sine qua non della psicoanalisi è l’interesse del medico verso i fatti psicologici, verso il mondo interiore. Va da sé, ma possiamo dirlo solo noi oggi, non certo Freud più di un secolo or sono, che questo requisito, l’interesse verso il mondo interiore, non vale solo per il medico ma anche per il paziente.
Un paziente può non avere nessun desiderio, per dirla con Socrate, di conoscere se stesso, viene da noi perché sta male e sta a vedere come vanno le cose. Ora sulla base della mia esperienza posso dire quanto segue. Il disinteresse per il mondo interiore può effettivamente dipendere da un’imponente resistenza che tuttavia col tempo e la perseveranza può essere superata. Il paziente che all’inizio e magari per molti mesi o anni ci sembrava irrevocabilmente legato al reale e al concreto, lentamente e laboriosamente si è trasformato in un paziente analitico. Un percorso del genere accade di rado, lo so bene; è un fatto nondimeno che una simile meravigliosa metamorfosi possa verificarsi. Qual è la condizione fondamentale affinché questa prospettiva possa un giorno dispiegarsi? La condizione è che si conservi e mai si abbandoni un setting mentale psicoanalitico, anche se il lavoro terapeutico non ha nulla di psicoanalitico. Io posso ascoltare e interessarmi autenticamente alle preoccupazioni concrete – lavoro, vita sentimentale, relazioni sociali – del paziente, posso perfino giungere al punto da fornirgli non dico un consiglio, ma almeno il mio punto di vista su una qualche questione, mantenendo però una parte della mia mente orientata in senso psicoanalitico. Per esempio, a un certo punto un’interpretazione psicoanalitica, che dunque ha a che fare con l’inconscio, va a buon fine, e da questo momento ha inizio la svolta. Per dirla con Bion, la nostra fiducia, insieme a una potente capacità negativa, hanno finalmente conseguito un risultato. Il paziente ora sa di avere un inconscio, ne è incuriosito, e spetta al terapeuta fare in modo che questi semi fioriscano fino a un tronco robusto. Va da sé che un simile percorso è decisamente raro; in tanti anni io ho avuto la gioia di sperimentarlo solo una volta.
Può d’altra parte avvenire, e sono di certo i casi più frequenti, che il disinteresse verso il mondo interiore sia intrinseco, per così dire, alla natura essenziale della personalità del paziente. È fatto così e non c’è verso di cambiarlo. Cambiarlo, ma con quale diritto poi? Il nostro dovere è curare, e se il curare fa tutt’uno con il cambiare, il trasformare in profondità, allora è psicoanalisi quella che facciamo e ne siamo felici. Ma se il curare non va di pari passo, e anzi è incompatibile col cambiare, allora quale esacerbata pulsione dovrebbe spingerci in ogni caso e contro ogni evidenza a decretare che il nostro obiettivo (nostro del terapeuta non certo del paziente) consista in una profonda, radicale trasformazione della personalità del paziente?
Come ha affermato Winnicott, in ogni persona c’è qualcosa di segreto e di sacro che va rispettato, sia pure a malincuore. Se un mio paziente non vuole farmi entrare nel suo mondo interno, e non già per una resistenza o un’inibizione, ma perché è fatto così, così è la sua natura, io cercherò di aiutarlo con una strategia diversa. Potrò magari atteggiarmi a cognitivista o comportamentista; il punto che però deve restare fermo, per cogliere ogni occasione, per non perdere mai la speranza, consiste nel conservare in una parte della propria mente un atteggiamento mentale di ordine psicoanalitico. Posso addirittura dare consigli o divieti di ordine pedagogici, purché la mia posizione mentale resti psicoanalitica. Purché, il “secondo sguardo”, di cui ebbero a parlare i Baranger, resti sempre e comunque vivo.
Termino rapidamente accennando a quale sia l’amaro della mia esperienza di psicoterapeuta psicoanalitico. Lo riconduco a due configurazioni: la prima è di stampo narcisistico ma al tempo stesso, per dirla col filosofo, è “umana e troppo umana”. Pazienti con i quali ho svolto un duro, faticoso e spesso angoscioso lavoro terapeutico, i quali, ritrovato un po’ di benessere, non si fanno più sentire, spariscono, dimenticandosi sovente di pagare le ultime sedute. Questa è una frustrazione narcisistica del terapeuta che va di pari passo con la patologia depressiva, a fondamento appunto narcisistico, di questa tipologia di pazienti. In questi casi tuttavia l’amaro che sono stato costretto a mandar giù, dovevo in verità metterlo in conto fin dall’inizio.
La seconda esperienza di amarezza della mia pratica terapeutica è ben più intensa e dolorosa. È dolorosa e intensa al punto da non farmi dormire la notte. Mi riferisco semplicemente – ma il semplice avanza qui di concerto con il profondo – agli errori, alle sbadataggini, alle dimenticanze, alle parole vuote o superficiali, agli agiti malevoli, insomma a tutto ciò procura non già sollievo, bensì dolore, un vero e spesso intensissimo dolore al paziente.
Libera (etica) professione sia dell’analista sia del paziente: libertà (etica) psicoanalitica
Simone Maschietto
La difficile realizzazione del desiderio di “essere psicoanalista” che gratifica il nostro essere (nel mondo) comporta parecchie frustrazioni. L’articolo della collega Simona Fassone sembra testimoniare la sua legittima espressività di delusione, sofferenza, rispetto al nostro mestiere impossibile.
Il desiderio di essere psicoanalista comporta una formazione estenuante: analisi personali, supervisioni a grappolo, scuola di specializzazione, seminari, letture, confronti con colleghi, incontri/scontri con i nostri pazienti. Si è spinti dalla passione, dai propri dolori personali elaborati, dal desiderio di rifondarsi attraverso il sogno chiamato Psicoanalisi. Investiamo tutti noi stessi nella matrice psicoanalitica con la speranza di un mondo migliore, meno corrotto, più rispettoso delle differenze e della sofferenza della vita. Ci costruiamo un setting interno dove il nostro oggetto interno sia adeguatamente caldo, forte, capace di tollerare lo sporco della vita senza distruggersi e corrompersi. Dopo una rifondazione che dura anni, dove si è disposti ad incontrare il Diavolo per trovare il Paradiso ci ritroviamo nella stanza d’analisi dall’altra parte, a prenderci cura dei nostri pazienti e delle loro parti psichiche che rappresentano ancora le nostre (nonostante anni di analisi personale). Ecco il momento sacrale: la stanza la cerchiamo ben disposta a ricevere chi ci domanda aiuto, raffinata ma semplice, accogliente ma decisa, diventa la nostra pelle per ricevere pazienti a due, tre, quattro sedute. Si sceglie la libera professione perché si vuole essere liberi di esercitare il metodo psicoanalitico allo “stato puro” come voleva (teoricamente) il nostro Maestro Sigmund Freud.
Nelle Istituzioni non psicoanalitiche per chi decide di esercitare la pratica psicoterapeutica ci viene chiesto un adattamento quasi intollerabile, che giustifichiamo con il fatto di non perdere mai il nostro “terzo orecchio”, anche quando non possiamo far risuonare, come vorremmo, le sue risonanze profonde.
L’Etica Psicoanalitica è però l’Etica della Libertà: se vogliamo essere liberi nel nostro studio di vedere i pazienti a più sedute settimanali, di lavorare sul transfert e controtransfert, sulle difese, di fare emergere il fantasmatico, di fare emergere l’ombra dell’oggetto per modificarne l’impronta, dobbiamo lasciare liberi i nostri pazienti anche di resistere, anche di rifiutare la Cura che proponiamo. Anche il paziente ha diritto alla sua “libera professione” di paziente.
Il contratto che chiediamo agli analizzandi è pesante: almeno due sedute, non diciamo loro quanto durerà il trattamento, non diamo garanzie assolute se non quella di prendersi intensamente cura di loro per tutto il tempo che la Cura richiederà, la spesa economica dell’analisi è gravosa, chi non sarebbe tentato di fuggire…?! Spesso rimane veramente chi è disperato (magari ci vogliono anni per fare maturare la domanda di analisi), chi le ha provate tutte, quando i rimedi o le gratificazioni non sono più sufficienti.
Resistenze dei pazienti, nostri errori tecnici, variabili sociali, economiche, marketing delle psicoterapie brevi e facili mettono a dura prova il desiderio dello psicoanalista. Ma l’etica dello psicoanalitica è l’etica della libertà – se ti lascio libero di andare via per le tue resistenze (non possibili da sciogliere in quel momento), ti lascio libero di tornare –. La mente dello psicoanalista può allora elaborare quel lutto che il paziente ha agito perché impossibilitato ad accedere a livello rappresentazionale ai propri lutti. La lacrima interna dell’analista è la lacrima del proprio paziente che non ha voluto sentirne la consistenza, l’umidità, l’amarezza (angoscia della perdita, angoscia della castrazione).
Quando perdiamo i pazienti perché non accettano il metodo, perché ci abbandonano, perché compiamo errori tecnici, non ci resta che utilizzare una delle chiavi della Psicoanalisi – l’elaborazione –, altrimenti il lutto si trasformerà in melanconia; allora ci accadrà di criticare il metodo, noi stessi, la nostra scelta o la società ostile che propina le vie facili così nemiche della verità psicoanalitica che non ammette scorciatoie.
Ecco l’Ineluttabile: dove c’è desiderio c’è mancanza, dopo anni di riflessioni ho capito che ciò fa parte dell’essere psicoanalista, quindi cerco di elaborare le mancanze che assumere questo desiderio comporta, come in parte ha cercato di fare Simona nel suo scritto.
Improvvisamente... l’estate scorsa
Roberto Carnevali
Il mio punto di vista, rispetto agli argomenti che porta Simona Fassone nell’introduzione al suo caso clinico, si fonda su trentacinque anni di lavoro istituzionale in psichiatria, affiancato alla pratica privata. In entrambi gli ambiti ho cercato di sentirmi psicoanalista, nel modo in cui ritenevo fosse sensato e appropriato esserlo, senza operare distinzioni rispetto alla “purezza” del setting, e cercando di utilizzare le risorse che avevo nei vari contesti per mantenere una coerenza con i princìpi a cui mi ispiravo e mi ispiro, che pure sono in parte mutati nel tempo, seguendo un mio percorso evolutivo del quale molto ho scritto. In più, dopo i primi sei anni ho iniziato a condurre, e dunque conduco da quasi trent’anni, gruppi terapeutici in ambito psichiatrico, con un’impostazione gruppoanalitica, alla quale attribuisco la dignità e l’efficacia di un lavoro psicoanalitico a tutti gli effetti; anzi, come in più occasioni ho sostenuto, ritengo il setting di gruppo elettivo per la stragrande maggioranza dei pazienti, anche se, per motivi di ordine pratico, lavoro con i gruppi solo in istituzione e non nel privato.
Attingendo a un ambito che mi è caro, il cinema, posso peraltro dire che ricordo due film che hanno segnato la mia vita, entrambi con protagonista Montgomery Clift; essi sono Freud, passioni segrete e Improvvisamente... l’estate scorsa. Quando li vidi per la prima volta, entrambi mi suscitarono fantasie su quello che avrebbe potuto essere il mio lavoro futuro, e se il primo mi trasmise un senso di sacralità relativamente alla Psicoanalisi con la P maiuscola e alla sua applicazione in salotti viennesi con morbidi tappeti e profumo di libri e di archeologia (tutte cose che amo moltissimo), il secondo mi provocò uno choc salutare, aprendomi gli occhi sul mondo della follia, sull’angoscia data dalla perdita del contatto con la realtà, sulla patologia familiare e sull’ipocrisia che nasconde i panni sporchi agli occhi del mondo, esasperando la sofferenza dell’incapacità di vivere e creando misteri insoluti avvolti da una coltre di apparente “normalità”. Se il Montgomery Clift-Freud mi evocava immagini di esplorazioni nel mondo dell’inconscio che mi affascinavano, quello che interpretava lo psichiatra che salva Liz Taylor dal suo mondo familiare, impedendo che venga travolta dal folle perbenismo ipocrita che la circonda, mi trasportava in una psichiatria quasi eroica, che non solo non perdeva di fascino, ma acquisiva quello spirito “di frontiera” che ancor più mi sollecitava a intraprendere un percorso in questa direzione. Mentre studiavo psicologia, mi pensavo come uno psicoanalista, sì, ma in un contesto psichiatrico a contatto con la Follia con la F maiuscola. Quando, nei primi mesi del 1976, varcai la soglia dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale “Ugo Cerletti” di Parabiago (MI) (la legge Basaglia venne introdotta alla fine del 1978) decisi che l’ambito psichiatrico sarebbe stato il mio principale oggetto d’interesse e, possibilmente, il mio principale spazio di lavoro. E così fu. Dopo un anno di tirocinio volontario ebbi il mio primo incarico e cominciai un percorso che dura a tutt’oggi.
I problemi che Simona Fassone pone come segni dei tempi attuali, causati da rivolgimenti socio-culturali relativamente recenti, sono problemi che ho dovuto affrontare fin da subito, in un contesto dove la psicoanalisi doveva comunque fare i conti con aspetti istituzionali, medico-psichiatrici, e relativi alla durata, al numero di sedute settimanali, al pagamento, alla richiesta di cura, alla committenza, all’individuazione del cliente e della domanda, al rapporto con le famiglie e con il contesto socio-culturale.
Da tutto ciò ho tratto l’idea che il confronto con pensieri e scuole diverse può non essere solo un “fare di necessità virtù”, ma anche un effettivo arricchirsi cimentandosi quotidianamente con criteri che possono produrre riflessioni aperte a continue piccole, ma significative, trasformazioni.
Il lavoro con i gruppi ha poi ulteriormente ampliato l’orizzonte in cui cerco di muovermi, sollecitando confronti con altre scuole teorico-tecniche, con le quali sento una particolare affinità data dalla comune base relazionale.
Comunque ritengo esistano dei criteri per poter sentire un’appartenenza alla psicoanalisi, come teoria e come pratica clinica; e non penso di essere riduttivo dicendo che questi criteri sono per me essenziali ma puntualmente definibili. Il primo è l’ipotesi dell’esistenza dell’inconscio; il secondo è la ricerca di una consapevolezza di ciò che si fa. Il numero delle sedute, l’uso del lettino, la gratuità o il pagamento, il setting duale o gruppale, sono aspetti importanti, che configurano vari modi di essere analisti, ma che non inficiano a mio avviso il senso del lavoro analitico. E non penso che esista una corrispondenza bi-univoca tra la durata del trattamento e la frequenza delle sedute da un lato, e il livello di profondità raggiunto dall’altro. Né ritengo che si possa parlare di un soggetto “analizzato” come se si parlasse di una cura che si conclude con una “guarigione” da una “malattia”.
Cito, a conclusione di queste brevi riflessioni, un mio sogno, fatto qualche anno dopo la mia ultima seduta di analisi:
Sto rientrando a casa, e dal portone vedo le scale del mio condominio, che invece di salire con andamento regolare sono orientate in varie direzioni, in un modo che mi ricorda un celebre quadro di Escher, in cui le prospettive sono variamente visibili, a seconda di come le si guarda. Inoltre al posto dei muri ci sono dei vetri, che segnano confini trasparenti che amplificano ulteriormente il gioco di prospettive. In quel momento passa davanti al portone il mio analista, che mi vede, si ferma e mi chiede con grande stupore se io abito lì. E io, cogliendo lo stupore, lo rassicuro con un sorriso, dicendogli che sì, abito lì, ma non deve preoccuparsi, perché va bene cosí.
Se devo individuare un momento in cui considerare conclusa la mia analisi, lo colloco al risveglio da questo sogno.
Commento allo scritto di Fassone
Guido Medri
Pazienti secondo noi da analisi, ma che si opponevano ad un trattamento analitico ci sono sempre stati; lo stesso vale per i tanti che interrompevano un decorso che noi sentivamo come assolutamente naturale, per non dire doveroso, che giungesse a compimento. Nessuno credo quindi che sarebbe stupito e ora si stupisce che la paziente, risolti i suoi problemi più immediati, se ne vada e senza nemmeno salutare, stante anche la giovane età. Si capisce che Simona sia delusa, tutti lo saremmo. Perché allora scriverne e perché ne segue un nostro commento? Perché il tema è quanto mai attuale e il caso proposto è molto significativo. Quando la terapia si interrompe viene naturale chiedersi se le cose non potessero andare altrimenti e si va a caccia dei nostri possibili errori. Potremmo dire che la terapeuta ha sottovalutato l’enorme distruttività già espressa nel primo sogno: abbiamo a che fare con delle cariche aggressive che erompono sulla superficie corporea mascherandosi come manifestazioni di amore (i cuoricini). Il risultato è che la paziente alla fine si sbarazza della terapeuta e camuffa il tutto come il positivo risultato di un incontro felice (con il classico corteo di scissione, identificazione proiettiva, negazione ecc.). Simona doveva darsi da fare per prevenire l’acting out finale. Sarebbe stato probabilmente inutile e senz’altro assai difficile, ma il tentativo di ricorrere a delle confrontazioni e a delle interpretazioni andava fatto. Ma, io mi chiedo, poteva farlo ? Come è possibile creare uno spazio di riflessione, necessario per trattare un tema così ostico, a una seduta la settimana? È evidente che il difetto sta nel manico. Abbiamo a che fare con un quadro psicopatologico complesso che sconfina abbondantemente nella perversione e necessita di una psicoterapia intensiva (evito di dire di una psicoanalisi perché, oggi e con una paziente giovane, sembra quasi di dire una bestemmia). Simona allora avrebbe dovuto lavorare al ritmo di almeno due sedute la settimana, e così non è stato. L’attenzione viene dunque a cadere sulla cornice terapeutica, sulle condizioni necessarie affinchè potesse darsi una terapia efficace. Infatti Simona all’inizio le aveva proposte le due sedute, ma l’altra aveva sollevato delle difficoltà economiche e di fronte a questo cosiddetto dato di realtà la terapeuta aveva accondisceso alle esigenze della paziente. Ripercorro questi avvenimenti perché accadono con tale frequenza che ormai li diamo per scontati, non ci facciamo più attenzione. E invece siamo nel cuore del problema. Lavoriamo in un contesto che è molto mutato già rispetto a una decina di anni fa. Succede che noi proponiamo al paziente le nostre condizioni e questi le rifiuta adducendo i più vari motivi . Ormai la domanda di una terapia a un incontro settimanale è diventata quasi la regola. Per giunta i pazienti sono sempre di meno e ci troviamo stretti nella spiacevole alternativa di ribadire il nostro punto di vista e quindi perdere il paziente pur avendone bisogno perché ci manca il lavoro, oppure di accettare di dar vita ad una terapia nella quale non crediamo, che sarà comunque estremamente impegnativa e probabilmente deludente e, infine, già partendo in una condizione di inferiorità, se non addirittura sconfessando noi stessi. È quello ch è accaduto con Valentina e Simona ha tutte le ragioni di sentirsi delusa per non avere aperto “la scatola del tesoro”. Certo, accadeva spesso anche prima ,direi anzi che il paziente, oltre al diritto, ha il dovere di difendersi perché altrimenti non sapremmo su cosa lavorare, ma adesso accade davvero troppo spesso e soprattutto con delle modalità che non permettono la decodificazione nei termini dei significati e delle motivazioni sottostanti.
Assolutamente significativo in tal senso è il progressivo venir meno del trattamento analitico classico. Prima avevamo a che fare con pazienti che si difendevano dall’analisi, mentre adesso molto semplicemente non si trova più nessuno che sia disposto a farla. La verità è che si oppongono esattamente come prima, ma il fatto nuovo è che quando una difesa diventa un’opinione condivisa ed entra a far parte di un atteggiamento culturale a tutti i livelli non è più analizzabile, non se ne può neppure attribuire la responsabilità al paziente. Un collega della SPI mi diceva che di fronte alla proposta di una terapia a tre sedute il paziente era scoppiato in una fragorosa risata .Mentre, per quello che mi riguarda, lavoro molto, ma sono anni ormai che non ho un paziente a tre sedute la settimana sul lettino. Ci sono le eccezioni evidentemente, soprattutto per quanto riguarda le cosiddette analisi didattiche, ma se andiamo avanti di questo passo l’analisi nella sua versione classica davvero rischia di scomparire. Per inciso questo fatto è per me un motivo di vera frustrazione: mi manca il piacere intellettuale di una ricerca che non si costringe in limiti di tempo e che ha come suo obiettivo solo quello di validarsi per ciò che viene a scoprire.
Naturalmente si continua a lavorare, come ci dice Simona, nella prospettiva di agire sulle difese e di mettere in luce ciò che è nascosto alla coscienza. Ci si dice anche, a partire da Gill, quanto sia fondamentale l’atteggiamento analitico rispetto al fattore, da considerarsi secondario, la variabilità del setting; si scoprono i meriti della terapia vis à vis (Cahn); si apprezzano le sottigliezze delle terapia di sostegno (Rockland); ci si intende stimolati sul piano di un sapere clinico che viene prima dell’ortodossia e ci si avventura nel tentare nuove strade e nuove tecniche nelle terapie, diciamo così, a scadenza o con l’obiettivo già prefissato di entrare nel merito solo di specifici nodi conflittuali già indicati dal paziente (Kernberg). Si opera comunque con una certa efficacia e non mancano le soddisfazioni. Io credo che la psicoanalisi ortodossa necessitava di una scossa che la forzasse a considerare il dato clinico dei veri bisogni del paziente in relazione alle sue motivazioni e ai suoi limiti. Adesso però dobbiamo fare un passo indietro e riconsiderare l’insegnamento della tradizione. Quei casi che un tempo a tre sedute ci facevano sudare le proverbiali sette camicie sta diventando ormai prassi abituale seguirli a una seduta! Non si può forzare la terapia nella camicia di forza della disponibilità dichiarata dal paziente, la riflessione psicoanalitica vuole i suoi tempi, ha bisogno di essere messa al riparo dall’irrompere del “dato di realtà”.