ALCUNE RIFLESSIONI SULL'ATTUALITÀ DEL FARE PSICOTERAPIA PSICOANALITICA - INTRODUZIONE
di Simona Fassone
Quando la tua anima è pronta,
lo sono anche le cose
William Shakespeare
In questo periodo, dopo circa 18 anni di clinica in studio mi trovo a fare un bilancio del mio lavoro, e il suo sapore è dolce-amaro. Sono ancora entusiasta per il tipo di lavoro che ho scelto di svolgere: la passione, la continua formazione attraverso supervisioni, intervisioni, la lettura degli autori di psicoanalisi che via via ho imparato a conoscere e preferire, la partecipazione a seminari e convegni, sono aspetti intensi, gratificanti, in maturazione e crescita che ipotizzo non finiranno mai.
Tuttavia ci sono risvolti difficili, dolorosi, ci sono delusioni e fatiche che non diminuiscono con l'esperienza, e che purtroppo non sono legate alla mia formazione o capacità, o almeno non solo.
Credo di fare mia la voce di molti colleghi nel dire che di psicoterapia psicoanalitica “buona” se ne riesce a fare poca. I pazienti non sono numerosi in tempo di crisi economica. La prima cosa che una famiglia “taglia” quando ci sono pochi soldi per vivere è la spesa legata all'aspetto della salute psicologica, non essendo essa quantificabile, oggettivabile, non dando la psicoterapia immediati risultati a fronte del grosso impegno economico richiesto.
Certamente non è solo questo il problema. Ci troviamo sovente di fronte a persone che, pur essendo sofferenti, infelici, insoddisfatte, sono poco disposte a mettersi in gioco quanto basta. Abbiamo sovente a che fare con persone la cui patologia è legata all'area dei disturbi narcisistici, dunque persone che sono estremamente ambivalenti rispetto al proprio bisogno di essere aiutate. Sono individui che vorrebbero risolvere magicamente con poco impegno e grande gratificazione quelli che, invece, noi sappiamo essere problemi tra i più difficili da trattare. Sono persone che trarrebbero, forse, giovamento da una lunga analisi ad alta frequenza settimanale (3-4 sedute), e invece non sono disposte a fare più di una o due sedute alla settimana.
A questo punto ci vediamo costretti ad escludere l'uso del lettino. Con un setting così rarefatto si impiegano degli anni a stabilire una buona relazione, una forte alleanza terapeutica che renda possibile l'esplorazione di aree estremamente difese (perchè tanto sofferenti). Dobbiamo fare grandi sforzi e pazientare molto per riuscire a “vedere” cosa sta succedendo tra noi e il paziente, a capire “cosa ci sta dicendo”, al di là dei contenuti palesi. Con una frequenza solo settimanale, la maggior parte del tempo che condividiamo con questi pazienti viene spesa nel loro racconto di accadimenti della settimana, spesso molto turbolenti e vivaci, tali da invischiarci in una considerazione eccessivamente aderente al piano di realtà. Quando riusciamo a orientarci in quelle che cogliamo come espressioni di dinamiche transferali e controtransferali, capita spesso che il paziente non colga il senso di analizzare questo piano, di passare su un registro così avulso dalla concretezza dei fatti quotidiani che gli stanno a cuore.
Molte volte ci troviamo a fare psicoterapia di sostegno. Abbiamo certamente in mente un modo di leggere le cose che è psicoanalitico, ma finiamo per tenercelo per noi, lo usiamo solo come chiave di lettura che però spesso non è fruibile per questi pazienti a “part-time”.
Certamente so che anche questi percorsi hanno dignità e significato, e per fortuna si ha spesso l'impressione che funzionino, che le persone che abbiamo accompagnato e sostenuto per qualche anno si allontanino da noi con un senso di sé un po' più integrato, che siano diventate più “capaci di amare e lavorare”.
Tuttavia personalmente spesso ho l'impressione di un grosso capitale non speso, di una scatola del tesoro neanche aperta.
Diventa importante capire quali sono i nostri obiettivi, qual è il fine del nostro lavorare clinico, quando dobbiamo giocoforza tarparci un po' le ali perchè il paziente chiede sì una psicoterapia, ma rende estremamente difficile lavorare in modo psicoanalitico.
Sto maturando l'ipotesi che esistano diversi livelli di profondità del percorso psicoterapeutico che possiamo intraprendere coi nostri pazienti, e che questi differenti livelli siano in relazione di proporzionalità diretta con la qualità del benessere psichico a cui è possibile approdare.
In alcune situazioni riusciamo a svolgere un percorso di carattere più che altro "supportivo", aiutiamo la persona a affrontare (qualche volta a risolvere) situazioni problematiche o sintomi; ma il discorso non permette di raggiungere un mutamento pervasivo e profondo, duraturo e stabile anche nell'autonomia raggiunta dal paziente dopo la conclusione della psicoterapia. Mi pare che il paziente si allontani da noi senza aver introiettato la cosiddetta funzione analitica.
In altri casi, la relazione che riusciamo a stabilire con la persona può invece entrare nel merito delle dinamiche transferali e controtransferali, nell'analisi delle difese, in tutto ciò che pertiene al "qui ed ora", nella considerazione sensibilissima dei mille micro-accadimenti tra l'analista e il paziente. Questo tipo di lavoro – lungo, faticoso, dispendioso – può consentire l'acquisizione di un senso di Sé davvero nuovo, complesso, in cui ci sia spazio per le tante parti prima misconosciute o scisse, di una consapevolezza dei propri limiti e delle proprie risorse, della propria responsabilità adulta, capace di contemplare la propria colpa e capace di esprimere la propria gratitudine; un senso di Sé che è in grado di dipendere dagli altri così come di farsene carico.
La domanda che pongo è se sia più giusto cercare in noi stessi, come psicoterapeuti, una capacità motivante maggiore, per portare il paziente "reticente" ad avere fiducia verso un impegno senz'altro più gravoso ma più fertile, oppure se sia più sensato, con questa tipologia di pazienti un po' refrattari a una mentalità analitica, puntare ad "altro" fin dall'inizio, serenamente pre-avvertiti che non si farà un'analisi né qualcosa di molto simile, bensì un lavoro, ancorché dignitoso e utile, con obiettivi circoscritti alla miglior gestione del problema portato dal paziente, anche quando noi intravediamo che ci sarebbe molto di più da dire.