Ringrazio Roberto Carnevali per avere sollevato, dopo la lettura del mio “Narcisismo come ferita relazionale” pubblicato nel numero 6 di Pratica, due interessanti questioni. La prima riguarda la legittimità o meno di affermare l’esistenza di un “narcisismo sano”; l’altra è relativa all’utilizzo del mito in psicoanalisi. È evidente che possa esistere un reale rischio di confusione e di fraintendimento in merito a queste tematiche.
In merito al tema del “narcisismo sano”. Se non ho capito male, secondo Carnevali sarebbe più corretto indicare con narcisismo quella precisa condizione umana e psicopatologica espressa nel mito greco in maniera “univoca”. Carnevali auspica – avversando altre possibili interpretazioni del mito – un ritorno al significato originario e universale lì espresso: l’innamorarsi della propria immagine e il morire a causa di questo.
Credo di aver ben compreso la posizione di Carnevali sulla prima questione posta: l’utilizzo dell’aggettivo “sano” di fianco a narcisismo. In effetti, sia mentre leggevo il suo scritto e sia dopo, quando pensavo a cosa rispondere, si sono riaffacciati nella mia mente dei ricordi in merito a quanto sostiene Carnevali. In breve, mi sono ricordato che fino a qualche tempo addietro nutrivo gli stessi suoi dubbi e perplessità. Tuttavia, dopo aver letto le opere di Kohut, Salonia, Kernberg, Green, ho cambiato opinione. Ciò naturalmente non vuol dire che debba fare lo stesso Carnevali.
Penso che il nocciolo della questione sull’uso del concetto di “narcisismo sano” possa essere dal mio punto di vista riassunto così: il concetto di narcisismo può avere una maggiore fecondità euristica ed esplicativa, aggiungendo al suo originario significato un’ulteriore declinazione che abbia a comprendere anche in un’accezione più ampia quella di “narcisismo sano”? Secondo gli autori che ho considerato nell’articolo la risposta è positiva. Ma secondo me la risposta ad una simile domanda non può essere una questione ideologica ma semmai una questione pragmatica. Pragmaticamente, cioè, quali sono i vantaggi e gli svantaggi nell’enfatizzare un narcisismo solo “abnorme” o nell’enfatizzare la possibilità di un narcisismo “sano”? Tra i vantaggi nel sostenere la sua posizione Carnevali annovera la necessità di sbarazzare il campo ad ogni possibile fraintendimento sul concetto di narcisismo, operazione questa possibile solo se si rimane fedeli all’essenza del mito. Concetto quello di narcisismo al quale lega in maniera stringente il termine “patologia”:
Se risaliamo al mito di Narciso, sfido chiunque a trovare qualcosa di sano nell’innamorarsi della propria immagine fino a morirne. Non amo molto usare il termine “patologia”, ma se c’è qualcosa a cui sento di attribuire questa caratteristica è proprio il narcisismo.
Cerco di chiarire in due parole la mia posizione a livello teorico sul “narcisismo sano”. Non si tratta infatti secondo me di porre l’accento per mezzo dell’espressione “narcisismo sano” sul presupposto di eventuali tornaconti personali come moventi dell’agire – secondo il pensiero di Carnevali – ma di accettare o meno la possibilità in via teorica dell’esistenza di un’energia vitale individuale che permetta ai nuclei del Sé frammentati presenti alla nascita di acquisire una coesione. Coesione che a sua volta spingerà verso ambizioni sane, ideali, valori, interessi e tutte quelle tensioni che riguardano talento e capacità personali (Teoria del doppio asse, Kohut, 1971).
In questi termini il concetto di narcisismo non si trova più nel terreno esclusivo della psicopatologia, venendo tirato fuori da quei confini in cui lo relega Carnevali. Difatti, il soggetto con caratteristiche narcisistiche non è solo parti malate, ma presenta pure risorse, parti sane e comportamenti “funzionali”, che vanno riconosciuti, compresi e rispettati, enfatizzando semmai, al contrario di Carnevali, le parti sane rispetto a quelle non sane, piuttosto che sfidare chiunque a trovare qualcosa di sano nell’innamorarsi della propria immagine fino a morirne. Dal punto di vista pragmatico, mi chiedo allora se questa differente visione, infusa di un maggior grado di speranza per la dimensione futura, potrebbe persino essere di aiuto nel contesto terapeutico, in relazione, certo, al paziente che ci si trova di fronte.
In merito all’assunto di Carnevali secondo il quale nel narcisismo si riscontri la psicopatologia per antonomasia, non posso affermare di essere d’accordo. Basti pensare ai numerosi modi con cui può configurarsi una psicopatologia per ritenere l’assunto di Carnevali del tutto soggettivo e arbitrario. Penso alle modalità di esperienza anoressica, bulimica, depressiva, maniacale, bipolare, ossessiva, fobica, paranoica, panica, schizoide, border-line, ecc., ecc. È possibile considerare, come lascia in qualche modo intendere Carnevali, queste forme di esistenza meno “cariche di sofferenza” rispetto al narcisismo? A mio modestissimo avviso non credo sia possibile.
(Detto per inciso anche a me come a Carnevali non piace il termine patologia in ambito psicologico e perciò – diversamente da lui – evito di usarlo, anche in relazione al narcisismo).
La sintesi dell’universale del mito sintetizzata nelle parole di Carnevali con l’innamorarsi della propria immagine e il morire a causa di questo, mi ha fatto venire in mente la versione asciutta e scarna del mito di quando ero giovane ed entravo le prime volte in contatto con esso. Tenendo conto della complessità degli elementi, per usare le parole di Carnevali, nel mito però è presente pure la figura di Eco, in un’ottica potremmo dire relazionale, grazie alla quale emergono quei significati propri del racconto mitologico. Il fatto che nella sintesi espressa da Carnevali non venga per nulla presa in considerazione venendo quindi di fatto esclusa, mi pare possa essere più un atto arbitrario che un cogliere obiettivamente quella che è l’essenza del mito stesso.
Da parte mia riassumerei l’essenza del mito così: gli déi puniscono il giovane di Tespi, che rifiuta di aprirsi all’amore rappresentato dalla giovane ninfa, chiamata Eco, esasperandone la colpa: l’amore di sé, o meglio lo stupore di fronte alla propria immagine, porterà il giovane Narciso alla morte.
Sono stati versati, si versano – come in queste righe – e si continueranno a versare litri di inchiostro (e di “latte”) sul mito di Narciso e sui miti in generale. Penso che i numerosi “rivoli” nascano spontaneamente da tematiche tanto importanti ed interessanti, quanto allo stesso tempo misteriose ed intriganti, che riguardano la natura umana, di per sé assai complessa e difficile da cogliere nelle sue diverse e molteplici dimensioni individuali, familiari, sociali e antropologiche. Si tratta di rivoli che non fanno che alimentare il “fiume” della complessità.
Ci tengo a sottolineare inoltre che la posizione espressa nel mio articolo in merito al narcisismo, diversamente dalla riflessione espressa da Carnevali indicante una sua personale posizione, quindi maturata autonomamente, si rifà agli autori lì citati.
Ancora una precisazione mi preme in relazione alle seguenti parole di Carnevali:
e poi, innestando ipotesi su ipotesi e correndo per la via, si può arrivare a dire che Narciso si comporta come un narcisista, affermazione che appare tautologica, per non dire scontata.
Rimanendo però ai fatti – all’esperienza di lettura del mio articolo – non mi pare di avere mai affermato quanto sopra, ma semmai al contrario avere detto che il narcisista compie quelle sue tipiche manovre già descritte nel mito di Narciso. Riprendiamo le mie testuali parole:
Un’altra interpretazione interessante viene avanzata da Lowen: respingendo Eco, Narciso respinge la propria voce. Ma la voce è espressione dell’essere interiore, del sé corporeo contrapposto all’apparenza superficiale. Nel termine “persona” è implicita l’idea che sia possibile conoscere un individuo dal suono della voce. Secondo quindi questa interpretazione Narciso negò il suo essere interiore in favore dell’apparenza: manovra questa tipica dei soggetti narcisistici.
Cosa c’è nell’interpretazione di Lowen di tautologico o di scontato? Dove sono questi salti da ipotesi a ipotesi? Veramente dovremmo mettere a tacere la voce – tanto la mia quanto quella di Lowen – il contributo (il dono) dell’altro in maniera così brusca, dovendoci necessariamente fermare a quella “figura immediata” che emerge dal mito? Forse che queste possibili interpretazioni non fanno che mettere a fuoco di volta in volta “verità” strettamente connesse agli specifici intenti teorici, su diversi aspetti di quell’unica e complessa “realtà” che è la psiche? Carnevali afferma pure:
Prendere solo un aspetto del mito e svilupparci sopra un discorso che porta lontano risulta a mio avviso confusivo, perché porta a dimenticare il senso profondo della complessità del mito stesso, e introduce una concettualizzazione che, allontanandosi dalla radice, si disperde in rivoli dall’interno dei quali risulta poi difficile, e a volte impossibile, intendersi.
A me non sembra però di avere preso un solo aspetto del mito e averci sviluppato sopra un discorso. Per evitare fraintendimenti in questi casi credo sia importante riportare i passi che si ritengono critici.
In termini seppure generali, voglio sottolineare la necessità di delineare un quadro il più possibile ampio e comprensivo dell’oggetto di indagine “mito”, con l’individuazione e l’analisi di tutti quegli elementi che possano essere considerati particolarmente significativi per la sua comprensione.
Mi pare che questa polemica possa anche essere collegata alla dialettica relativa alle due fondamentali vocazioni della mente umana, così come delineato da alcuni autori: la dialettica tra l’Idem e l’Autòs. L’Idem e l’Autòs rappresentano le due attitudini precipue dell’uomo. La prima vocazione fa riferimento alla ripetitività dei codici, a quel bagaglio di conoscenze già acquisite, il prendere stabilmente dentro di sé quanto proviene dall’insegnamento altrui; mentre la seconda è espressione di creatività, della predisposizione ad una conoscenza trasformativa del mondo. Esso è ciò che spinge l’uomo alla rivisitazione dei codici istituiti attraverso l’esercizio, talvolta doloroso ma necessario, di dis-connessione (negazione) e ri-connessione (affermazione) degli agglomerati simbolici di cui è equipaggiata la psiche.
Come è noto, Freud citava spesso l’esortazione di Goethe nel Faust: ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo, se vuoi possederlo davvero. Parafrasando questa affermazione si può dire che è necessario riconquistare quanto si trova di sedimentato nell’Idem. Ciò che possediamo in eredità non basta! Per possederlo veramente occorre agire trasformativamente su di esso. Laddove possedere significa ri-concepire ed esprimere, condividendo o rifiutando sulla base di una creativa e personale significazione: la simbolopoiesi. Accanto infatti alla naturale disposizione dell’Idem ne esiste un’altra: quella tendente alla creativa rivisitazione della “dote psichica originaria”, l’Autòs appunto. Insomma, nell’uomo accanto alla tendenza a replicare certe conoscenze esiste pure la predisposizione ad una conoscenza trasformativa del mondo, che lo spinge a liberarsi dai vincoli esistenti per mezzo della ri-simbolizzazione, anche cioè a volte operando scelte originali. Sono infatti convinto che tanto la storia individuale quanto la storia del mondo sgorga dalla capacità di ri-significare gli accadimenti, di rin-tracciare le mappe delle credenze ed estendere i confini della conoscenza o, ancora per dirla con Goethe, di ri-formulare vecchi problemi con parole nuove. Dialettica fra queste due polarità indicante lo stretto rapporto di reciproca interdipendenza, ed anche i rischi (antropologici e psicopatologici) legati all’insufficiente presenza di uno dei due poli dialettici.
Considerato che su questi temi Roberto Carnevali studia e scrive da decenni, lo invito a a proporre anche il suo punto di vista sull'idea dell'inesistenza del narcisismo sano in relazione alla bipolarità idem-autòs, sottolineando qui l'eccessiva stringatezza delle sue argomentazioni. Vedo infatti come una profonda contraddizione il fatto che egli scriva da tempo sulla pregnanza della dialettica dicotomica di idem e autòs, e poi avanzi la necessità di un certo uso del mito, nel quale questa dialettica non è per nulla contemplata.
Lo stesso invito vale anche in relazione al suo dissenso con la teoria di Kernberg, credo che dovrebbe esprimere in forma più ampia le sue motivazioni a riguardo.
Il ritorno alle origini e la ricerca dell’essenza (di husserliana memoria) auspicato da Carnevali mi fa venire in mente le considerazioni riportate sul “Genio delle origini” da Racamier (1992) rispetto all’ambiguità. Il concetto di “narcisismo sano” è certamente ambiguo se non addirittura contraddittorio. Tuttavia, l’ambiguità è un potenziale normale e fecondo (p. 413) . L’ambiguità fondante la vita stessa è figlia di Eros, nonostante la nostra difficoltà ad accettarla nella sua essenza.
Insomma, concordo pienamente con chi all’interno della redazione fa notare a Carnevali che la sua posizione è troppo radicale, e sembra voler cancellare tutte le complesse disamine fatte sul concetto di narcisismo, con una sorta di appiattimento di tutto l’arricchimento che attraverso tali riflessioni si è avuto nell’ambito del pensiero psicoanalitico.
Senza dimenticare che il concetto di narcisismo primario (in senso freudiano) [1] del neonato “tutto chiuso in se stesso” alla nascita, dal punto di vista pulsionale, non trova riscontro nei più recenti studi dell’Infant Research. Il neonato è in relazione con la madre sin dai primi istanti in cui viene al mondo. Così come è stato ormai ampiamente rigettato da gran parte della comunità psicoanalitica l’intero paradigma pulsionale dello sviluppo psicosessuale su cui poggiava il concetto stesso di narcisismo, a favore della centralità e della pregnanza del momento relazionale/esperienziale a discapito del momento endogeno/pulsionale, sia nel contesto della psicologia dello sviluppo che in ambito psicopatologico. Quindi, più che un ritorno alle origini, proporrei semmai – in maniera anche un po’ provocatoria – di eliminare completamente il termine, almeno nel dominio della psicologia.
[1] Freud S., (1914), trad. it. Introduzione al narcisimo, in Opere volume 7, Bollati Boringheri, Torino 1967-1993. Idea, quella freudiana del narcisismo primario, congruente con la teoria delle pulsioni: come sappiamo Freud introdusse questo concetto per dare conto della condizione relativa alla mancanza di transfert nei pazienti affetti da psicosi o narcisismo secondario (in questa accezione il concetto di narcisismo si discosta da un altro filone di studi che individua con il termine “narcisismo” un disturbo della personalità, secondo l’attuale classificazione del DSM IV-TR, al quale sia io che Carnevali ci stiamo riferendo in queste pagine). Questa posizione è stata smentita dai successivi sviluppi della psicoanalisi, grazie soprattutto all’impiego dei concetti di M. Klein nei lavori di Bion 1957, 1967 e di H. A. Rosenfeld 1965 (Dazzi N., De Coro A., Psicologia dinamica, Laterza, Bari 2006). D’altro canto il narcisismo primario potrebbe sembrare, forse, un'ipotesi in parte “bizzarra”, se messa a confronto con quelle illuminanti considerazioni freudiane vertenti gli sfinteri dell’organismo. Freud rinvenne infatti nello sfintere orale, e negli sfinteri in generale, uno dei confini e luogo di scambio tra l’organismo e l’ambiente. Nell’ottica del narcisismo primario, come sarebbe stato possibile al neonato di nutrirsi, fare esperienza e crescere?