Poiché spesso nella nostra rivista si discute di narcisismo vorrei fare qualche considerazione. Il linguaggio corrente dà al narcisismo una connotazione sempre negativa. Si può tradurre in egocentrismo, egoismo, vanità, mancanza di empatia, mancanza di solidarietà e così via fino alla demonizzazione del nostro contesto culturale (il mito del successo, del potere, della bellezza, della felicità, del corpo ecc.).
Se si cerca nella letteratura specialistica una definizione si scopre che ve ne sono quasi un centinaio. Ne consegue una grande confusione. Penso che, perché ci si capisca, ogni volta che si ricorre al concetto esso va delimitato con ulteriori specificazioni. Ad esempio narcisismo sano, narcisismo patologico; narcisismo di morte, narcisismo di vita; narcisismo sadico, narcisismo masochistico; narcisismo buono (non è quello sano né quello masochistico) e narcisismo cattivo (non è il narcisismo di morte), narcisismo primario, narcisismo secondario. Il narcisismo come modalità di relazione, come atteggiamento, come tipo di personalità. E poi ancora il narcisismo orale, anale, fallico; il narcisismo isterico, ossessivo, depressivo, ecc. Oppure richiamandosi agli autori. Ad esempio, il narcisismo secondo Sandler, secondo Rosenfeld, Freud, Kohut ecc.
Lo scopo di questo scritto non è quello di trattare il narcisismo dal punto di vista metapsicologico né di ripercorrerne le varie manifestazioni sul piano clinico (si tratterebbe di un compito di enorme portata), ma consiste nel tentativo di arrivare a darsi maggiore chiarezza su alcuni fra gli argomenti che più sollevano il disaccordo fra gli autori. A mio parere occorre in primo luogo liberare il termine dalla connotazione patologica che è implicita nella descrizione che ne dà Freud; da cui si ricava che l’amore per se stessi va a scapito dell’amore per l’altro e viceversa (l’innamorato che diventa umile ecc.). Se riprendiamo il mito, Narciso viene sedotto dalla sua immagine. Tuttavia quello che egli è davvero,la sua verità,l’interezza della sua persona va ben oltre il suo aspetto fisico, sta altrove; dunque non ama se stesso, ma si innamora di una parte di lui. Eco è vittima della stessa fascinazione. Poiché questo giovane si chiama Narciso, è la rappresentazione figurata del concetto, dovrebbe essere questo il narcisismo. Le cose non stanno affatto così, l’equivoco va chiarito. Narciso non è la personificazione del narcisismo, ma del narcisismo patologico, addirittura anzi nella sua forma più estrema.
Le concettualizzazioni ulteriori tendono nella più ovvia delle maniere a ripercorrere la stessa strada,ossia a connotare il narcisismo in chiave difensiva. L’intero assetto analitico rimanda a questo fine, vedi l’assunto fondamentale che ci si deve opporre alla fascinazione regressiva del desiderio infantile e la gestione del transfert è all’insegna della frustrazione.
Gli analisti si dividono. Per la più parte leggono il narcisismo come in contrapposizione all’investimento oggettuale. Per altri questa antitesi è dettata dalla patologia, mentre la salute vede invece narcisismo e investimento oggettuale in sinergia, l’uno la condizione dell’altro. Oppure, in altre parole, un problema sul piano narcisistico si traduce in un problema sul piano della relazione oggettuale e viceversa.
Fra i primi va annoverato Freud. Si inizia la vita totalmente assorbiti in se stessi e la crescita comporta lo schiudersi alla relazione fino all’elaborazione della più estrema delle traumatizzazioni, quella dell’Edipo.Non per nulla il primo degli affetti secondo Freud è quello dell’odio, l’odio per il disturbo arrecato dal mondo.
Narcisismo e relazione oggettuale si relazionano in termini quantitativi, secondo il modello dei vasi comunicanti: più dell’uno, meno dell’altro. Nevrosi e ritiro narcisistico vanno insieme, per definizione. Laddove vi sia frustrazione infatti non può che aversi inversione del movimento libidico, dall’oggetto verso il soggetto stesso. La più importante delle resistenze, la resistenza dell’Es, sta nei soddisfacimenti sostitutivi della libido, una libido che ha mutato l’oggetto della gratificazione (dal seno nella sua realtà all’allucinazione del seno). (tradotto nel linguaggio attuale, dopo aver buttato dietro le spalle la teoria pulsionale : ciò che del Sé reale non viene vissuto in quanto non riconosciuto dall’ambiente esita regressivamente, per compensazione, nel Sé grandioso).
Si tratta di uscire dalla condizione di autarchia perché “ se non si ama ci si ammala”. Maggiore è il ristagno narcisistico, più grave è la patologia; fino ad arrivare alla psicosi ove non è più possibile l’investimento transferale, sull’oggetto. Nel trattamento analitico dunque il narcisismo è il nemico da battere, narcisismo e resistenza sono la stressa cosa.
Va detto che la perentorietà della lettura che ho proposto è contraddetta dalla nozione dell’ideale del’Io, quale modello cui aspirare, o meglio, cui identificarsi. Poiché l’ideale rimanda alle figure genitoriali, il narcisismo spostato sull’oggetto diventa un fattore di evoluzione e di apertura. Siamo nel 1914 (Introduzione al narcisismo). Purtroppo però Freud più tardi ingloba il’ideale dell’Io nel Super Io, un’operazione, a mio parere, altamente confusiva, che avrà pesanti conseguenze.
La psicoanalisi nel suo insieme si indirizza secondo le indicazioni di Freud, fino anzi ad estremizzarle. Cito solo alcuni fra gli autori più rappresentativi. Per Kernberg il narcisista è colui che succhia l’arancia per poi gettarla via. Secondo i neokleiniani, da Rosenfeld a Steiner, il narcisismo è il motore della perversione: tanto si è centrati su se stessi, su ciò che si vuole sia, secondo la logica del principio del piacere e dell’onnipotenza, che la realtà (“i fatti della vita”, secondo Money Kyrle) viene negata. Le difese sono tali per via del narcisismo, si dicono difese narcisistiche,narcisismo e aggressività vanno a braccetto. Il Sè grandioso o l’onnipotenza narcisistica sono dettati dall’invidia e contemporaneamente sono il rimedio contro di essa. La terapia sta nel recupero delle parti messe nell’oggetto via l’identificazione proiettiva e nella capacità depressiva di affrontare il distacco, la dipendenza e la consapevolezza della propria distruttività. Green conia l’espressione narcisismo di morte a significare l’attacco che viene portato non solo all’oggetto e alla relazione, ma al desiderio stesso per la relazione.
Sull’altro versante citerei per primo, se non altro in ordine di tempo, Grunberger, un autore secondo me trascurato dalla letteratura. A suo parere la situazione analitica pone il paziente in una sorta di culla narcisistica animata da aspettative di perfezione fallica e queste fantasie sono il motore stesso della cura.
L’oggetto transizionale di Winnicott e il giuoco sono il segno della creatività del bambino che inventa il mondo a partire da se stesso, che per crescere ha bisogno di situarsi in una zona di confine fra il Sè e il mondo. L’area transizionale anche nell’adulto è il luogo privilegiato per lo sviluppo culturale e personale.
In Italia abbiamo Lopez. Riporto un brano per esteso. “L’acquisizione dell’universale nell’individuale è quella sintesi, quella celebrazione emancipativa che simultaneamente redime e santifica narcisismo e amore. Il narcisismo non è più amore tautologico per sé stesso in quanto soggetto solipsistico, ma è amore per sé stessi in quanto comunità dentro di sè equivalente dunque all’amore per colui o colei che è persona. Analogamente, l’amore per l’altra persona è anche manifestazione di egoismo maturo ecc…
Kohut prende il toro per le corna e propone un punto di vista alternativo, il punto di vista del soggetto. Parte dal Sé e dalle esigenze che esprime, ossia essere riconosciuto nel suo valore e potersi affidare ad un modello ideale (direi di riconoscersi in esso); e ne segue lo sviluppo secondo il progetto di darsi atto delle sue potenzialità così da realizzare le sue ambizioni e raggiungere i suoi ideali. Grandiosità e idealizzazione non stanno dalla parte delle difese, ma sono l’espressione del narcisismo infantile bloccato nel suo sviluppo; si ripropongono nel transfert per essere rielaborate come un bisogno legittimo. La crescita sta nell’evoluzione del narcisismo, dal narcisismo arcaico a quello maturo, in linea con l’esigenza di disporre di un Sé coeso (di abitare nella casa giusta, potremmo dire). L’oggetto significativo è esso stesso in funzione di questa fondamentale esigenza, non è mai “altro”, ma un oggetto che fa parte del Sé. Si tratta di reggere la frustrazione della distanza e della differenza, ma l’oggetto- sè deve esserci e il bisogno dell’oggetto- sè dura tutta la vita perché indispensabile per l’integrità del Sé, anche nella più autonoma e indipendente delle persone. In primo piano quindi non sta la relazione d’oggetto, intesa come cura per/ dell’altro(amore, bisogno, reciprocità,attaccamento, autonomia,colpa per gli attacchi portati, capacità di immedesimazione, continuità nell’investimento ecc.), ma la cura per il Sé, l’integrità e la pienezza del Sé. La formula di Freud si capovolge: non più occorre amare per non ammalarsi, ma occorre amarsi per non essere ammalati.
Dopo di lui va citato Sandler, il quale smonta l’ipotesi idraulica. Non è vero che chi ama si impoverisce narcisisticamente a beneficio dell’altro; se mai succede l’opposto. Allo stesso modo non è vero che il bambino orgoglioso delle proprie capacità è chiuso alla relazione. Al contrario, lo è invece il bambino insicuro. Dunque investimento oggettuale e narcisismo non sono in opposizione, ciò che conta è la qualità (o,meglio, quegli aspetti della mente che vengono investiti), non la quantità dell’investimento. E ancora, anche quando si è raggiunta la costanza d’oggetto, la rappresentazione dell’oggetto si accompagna ad una rappresentazione del Sé che riflette la relazione con l’oggetto e “che costituisce il legame tra il Sè e l’oggetto”. Si tratta dell’“aspetto oggettuale complementare delle rappresentazioni del Sé”. Insomma l’oggetto investito non è mai separato dal Sé. La vicinanza a Kohut è palese, anche se secondo Sandler l’oggetto risponde a bisogni più ampi rispetto solo al raggiungimento dell’omeostasi narcisistica. Sandler inoltre si sofferma più che sui danni provocati nell’oggetto a causa della incapacità ad entrare in relazione, sui guasti nel soggetto. Il ritiro libidico significa l’ impossibilità di aderire alle richieste del Sé ideale e ne consegue una continua autosvalutazione (il dolore narcisistico).
Considerazioni
Abbiamo a che fare con punti di vista divergenti. Volendo sintetizzare ulteriormente una panoramica già ridotta all’osso, per Freud il narcisismo nel paziente si legge in chiave difensiva, per Kohut si presenta come il problema del soggetto. Dunque si tratta di narcisismi diversi. Va tenuta presente questa distinzione perché altrimenti ci si confonde. Lo ripeto, il narcisismo di Steiner e quello di Johnson ad esempio appartengono a mondi concettuali diversi anche se il termine usato è lo stesso. La relazione oggettuale narcisistica, per come viene tematizzata da Steiner, significa l’assimilazione dell’oggetto al Sé per via della identificazione proiettiva, per Johnson la richiesta di conforto narcisistico da parte di un Sé devitalizzato; gli spazi transazionali sono un luogo di sviluppo culturale e personale per Winnicott e per Steiner sono una zona in cui ci si ritira narcisisticamente dalla realtà e ove non è possibile alcuna evoluzione. La contrapposizione fra i due punti di vista si traduce in una domanda per il clinico; il quale oscillerà, questo è ciò che io penso, fra le due posizioni a seconda della specificità dei vari contesti in cui si muove. A proposito degli spazi transizionali, ad esempio, ricordo un paziente con forti tratti schizoidi che si era aiutato con l’hobby della fotografia. All’inizio fotografava paesaggi, poi le case, poi la persone, poi i loro visi. Era il suo modo di entrare in contatto con una realtà, soprattutto quella relazionale, che gli faceva troppa paura. Si era trovato un luogo di passaggio che gli permetteva di avvicinarsi al mondo da una posizione di sicurezza. Al contrario,un altro paziente si faceva prendere dalla passione per i film di fantascienza ad un punto tale che la fantasia andava soppiantando la realtà fino a far temere addirittura un crollo psicotico.
Tornerò ora a pormi la stessa domanda a proposito del tema, così controverso, della personalità narcisistica.
Definizione del disturbo narcisistico
Si tratta di una preoccupazione per il valore della propria persona, sia sul piano strettamente individuale (ciò che si vorrebbe essere) che in relazione all’ambiente (valutarsi di più o di meno rispetto all’altra persona). Il problema narcisistico è il problema dell’autostima. Se si osserva dall’interno il paziente si capisce come se tutto venga valutato in termini valoriali: più o meno bello, più o meno intelligente,o piacente, potente,sano, con amici importanti, con una moglie bella e così via. Tutto, sempre e senza pause. È una vera ossessione, paragonabile a quella del controllo del paziente ossessivo.
Da cosa dipende l’autostima
La concettualizzazione più concisa e convincente è quella di Sandler: dipende dalla distanza fra il Sé reale e il Sé ideale. La tengo come punto di riferimento. Se la distanza è eccessiva ne deriva dolore, ciò che Sandler chiama il dolore narcisistico; in altri termini un abbassamento dell’autostima. Si devono però fare ulteriori importanti precisazioni Le richieste del Sé ideale non si qualificano di per se stesse elevate o meno, ma in relazione al Sé reale e,io aggiungerei, alle risposte dell’ambiente. Se un tizio in un eccesso di grandiosità avesse voluto rivoluzionare la psicologia avrebbe potuto fare a meno di diventare un megalomane frustrato se si fosse chiamato Freud. Lo stesso Freud se avesse limitato certe pretese e avesse semplicemente fatto il medico forse avrebbe fatto una scelta saggia, ma avrebbe corso il rischio di cadere in depressione. Sempre lo stesso Freud se fosse stato vittima dell’ostracismo sociale e non fosse riuscito a far valere le sue scoperte si sarebbe sentito, al di là della delusione e della rabbia, un povero sciocco, un fallito. Il dato significativo sta nella misura della distanza, vanno considerate le posizioni delle due strutture (o, detta con Sandler,rappresentazioni). Quindi le aspettative del Sé ideale possono essere anche elevatissime senza che questo rappresenti un peso per il Sé reale, se quest’ultimo è dotato di capacita straordinarie; o risultare eccessive anche se modeste se il Sé reale è poco dotato. E inoltre contano poi i risultati. Se l’intervento in pubblico di una persona con problemi esibizionistici va bene, ecco che il Sé reale e il Sé ideale si allineano e il sollievo è immediato, fino all’euforia. Ne consegue, e questo è un dato importante, che la distanza fra le due rappresentazioni varia continuamente in relazione al successo o meno delle compensazioni richieste all’ambiente. Potremmo dire che i risultati hanno già a che fare con la valutazione che il Sé reale dà di se stesso rispetto all’ideale, ma direi che sono anche una variabile indipendente (vedi l’artista riconosciuto come grande solo dopo la sua scomparsa). Comunque nella personalità narcisistica lo scarto fra ciò che si è e ciò che si vuole essere è troppo difficile da colmare e questo accade in relazione al fatto che le aspettative del Sé ideale generalmente sono troppo elevare, poco realistiche; e questo sembra senz’altro essere il dato di base, il motivo di partenza di tutto il problema. Un mio paziente mi diceva: cosa non darei se una volta tanto nella vita potessi prendere un diciotto e accontentarmi. E aveva ben ragione, visto che era venuto da me stremato e per giunta insoddisfatto e infelice, per avere dovuto puntare sempre e solo alla lode. È interessante riflettere su quegli aspetti del Sé reale che vengono messi in discussione, ossia messi a confronto con le loro forme ideali (l’intelligenza, la bellezza, la giovinezza ecc.). Le aree che presentano maggiore fragilità ci dicono molto dei messaggi imposti dalle modalità relazionali con i genitori.
Mi sembra inoltre che Sandler oltre a non mettere in evidenza la risposta dell’ambiente, non faccia cenno di un dato che a me invece sembra essenziale Mentre sto scrivendo queste note, non mi dispiacerebbe affatto essere (meglio, dimostrare di essere) come Freud; e non posso non notare che al suo confronto valgo ben poco (ho commesso l’errore, come fa il narcisista, di situare il mio modello troppo in alto). Ma subito mi viene da sorridere e torno a centrare la mia attenzione su quello che sto scrivendo, non su quello che scriverebbe Freud. Dunque, lo scarto fra le due rappresentazioni c’è, è innegabile, ma non mi procura un sentimento di inferiorità o di vergogna e non funziona come blocco. Il malessere dipende allora dal fatto che non tanto esiste la distanza,ma che il tema della distanza è sempre presente all’attenzione e diventa una tortura per via della giudizio che ne consegue. Il problema sta nel continuo confronto e nella critica che esso si porta dietro. L’affetto che ne esita, come sappiamo è quello della vergogna. Sta qui la tragedia del narcisista, quella di essere sempre sotto esame. Il tema del giudizio ovviamente è importante per la clinica; non solo perché da esso dipende il grado della sofferenza, ma anche perché costituisce forse il primo degli obiettivi terapeutici. Il paziente narcisista non sa scusarsi, non può tollerare i suoi limiti, è senza pietà nei confronti delle sue debolezze o mancanze. Occorre quindi, per prima cosa, che consideri con meno severità i propri insuccessi. Spesso è il più importante dei risultati che otteniamo, il ridimensionamento dell’atteggiamento critico.
L’autostima dunque nel disturbo narcisistico si articola in maniera paradossale. Il Sé ideale si presenta come il riscatto dalla scarsa considerazione in cui viene tenuto il Sé attuale e per un effetto di rimbalzo di natura compensatoria e difensiva si qualifica attraverso obiettivi grandiosi e velleitari, comunque al di là delle possibilità del Sé attuale. Il risultato, per l’appunto paradossale, è che aumenta la distanza fra il Sé attuale e il Sé ideale e ne discende che il Sé attuale perde valore. Siamo evidentemente in presenza di un circolo vizioso che si autoalimenta all’infinito. Va rilevato come la persona sia del tutto inconsapevole del meccanismo e del tutto impossibilitata a mettervi mano.
L’Io ideale e il Superio
Ossia l’idealità e la morale, l’ambizione e le regole. Sè ideale e Super io devono andare a braccetto così che la minaccia di castrazione limiti una spinta verso l’alto che voglia negare la realtà della propria condizione; e all’opposto,affinchè la regola non diventi una camicia di forza che blocca la creatività, ma diventi essa stessa un valore. Il giudizio critico cui accennavo prima è ovviamente un messaggio iusuperegoico. Nella patologia narcisistica così siamo allora alle prese con un Super io che non dà tregua all’Io impossibilitato a raggiungere i suoi obiettivi. Il Superio non tanto non esercita la sua funzione (relativizzazione di scopi troppo idealizzati, richiamo ad altre motivazioni che attengono al senso del dovere e alla responsabilità verso gli altri, un insieme di regole utili per l’autoconservazione e per gestire le transazioni sociali ecc), ma addirittura dà per scontata e necessaria la meta grandiosa da raggiungere, esercita un continuo controllo affinchè la meta non si perda mai di vista e critica,direi irride, perché non la si sa raggiungere. Si tratta di una forma di moralità che non limita, ma che anzi non tollera il limite. In altri termini, abbiamo a che fare con un Superio corrotto e che corrompe, specchio preciso delle feroci aspettative cui il bambino era tenuto a rispondere. Credo che la descrizione più convincente per illustrare la situazione, sia quella di Rosenfeld, di un mondo interno popolato di oggetti idealizzati e persecutori con cui il soggetto si identifica e di cui è vittima. Un Super io insomma non alleato dell’Io, in contrapposizione dialettica con il Sè ideale, ma al servizio di quest’ultimo.
Una diversa terapia
A partire da queste considerazioni la patologia narcisistica oggi tanto diffusa comporta una diversa finalità terapeutica. Questo a me sembra un punto della massima importanza. Mentre prima l’analisi era la terapia della liberazione avendo come obiettivo principale un assetto di regole interiorizzate che impedivano lo sbocco pulsionale, ora si tratta di contenere un’idealità da soddisfare ad ogni costo che ha come orizzonte ultimo l’onnipotenza stessa e la condotta terapeutica assume, direi necessariamente, un carattere contenitivo con tratti superegoici. Se la psicoanalisi era in controtendenza rispetto alla morale sessuofobica del tempo, ora lo è ancora, ma rispetto al dogma del piacere e del successo a tutti i costi. Credo che questa sia fra le principali ragioni per cui la psicoanalisi è venuta perdendo il fascino e l’attrattiva che aveva prima e viene percepita sempre meno la strada per esprimere senza impedimenti nevrotici se stessi e sempre più una cura con finalità normative.
La personalità narcisistica
Si definisce come tale la categoria psicopatologica contrassegnata dal disturbo narcisistico, ossia, come dicevamo prima, dalla continua domanda sul proprio valore. Il problema è l’autostima. È ormai inutile chiederci se tale categoria abbia o meno una rilevanza clinica poichè è data ormai per assodata dalla letteratura. Questo interrogativo non è però per nulla superfluo perché ha fatto la sua comparsa solo da qualche anno con i lavori di Kohut e poi di Kernberg. Ancora adesso per i neoKleiniani, ad esempio, non esiste; o, per lo meno, non ne fanno cenno.
Può accompagnarsi o meno a vari sintomi o a varie condotte devianti; i quali verranno letti come manifestazioni secondarie del disturbo.Ad esempio diremo di tossicomania o di anoressia o di fobie ecc. in personalità narcisistica.
Il narcisismo però è presente in tutte le forme patologiche (abbiamo detto come non vi sia condizione nevrotica che non comporti un ritiro libidico). Vedi ad esempio il perfezionismo ossessivo, di chiara marca narcisistica. Ma il problema principale dell’ossessivo è quello della colpa e del controllo che ne consegue. La stessa paranoia che immediatamente rimanda ad una posizione megalomanica, si qualifica per la minaccia proveniente dall’esterno. Vedi anche Il fobico alla ricerca di un oggetto onnipotente idealizzato, ma pur sempre pervaso dall’angoscia di separazione ecc. Insomma, ubi maior, minor cessat. Abbiamo a che fare con disturbi di altro tipo, che vanno classificati altrimenti. Si tratta di un’ovvia differenziazione, che va tuttavia rilevata per esigenze di chiarezza. Quando si parla del narcisismo del paziente (come ho detto, se è un paziente, non può non avere problemi di questo tipo), non lo si definisce come narcisista. Si hanno nel transfert bisogni speculari, ma questo non significa che si tratta di un transfert speculare, l’idealizzazione non qualifica il transfert come idealizzante. Naturalmente nella clinica è tutto complicato : si hanno disturbi narcisistici che si esprimono con una sintomatologia che è simile alle classiche nevrosi e, al contrario, problematiche assolutamente nevrotiche occultate dal palesarsi in superficie di una struttura pregenitale a carattere narcisistico.
L’impostazione proposta comunque è chiara. Abbiamo individuato un’area contrassegnata, diciamo così, da un narcisismo ristretto, specializzato.
Dopo questa lunga premessa dovremmo adesso descriverne la manifestazioni. Come sappiamo non c’è accordo in letteratura. Incomincio con Kohut, naturalmente limitandomi a pochi cenni. La più sintetica rappresentazione del disturbo è data dal famoso specchietto che vede da una parte (a sinistra) il Sé grandioso e dall’altra il Sé sintomatico. Le due sono divise da una linea, a raffigurare la scissione verticale. Al di sotto un’altra linea raffigura la scissione orizzontale che esclude il Sé nucleare (o reale). Il paziente oscilla a destra e a sinistra fra rappresentazioni del Sé ora inflazionate (il Sé attuale e il Sé ideale coincidono), ora svalutate (il Sé attuale si ritrova distanziato dal Sé ideale); e alla ricerca di un’autenticità che non può darsi perché mai vissuta (la scissione orizzontale). Riprendendo l’esempio che mi riguarda è come se il soggetto si sentisse Freud e volesse che tutti lo valutassero come tale, per scoprire poco dopo di non esserlo e dunque di non valere nulla; mentre le sue vere qualità si pongono sempre più al di fuori dell’orizzonte delle sue possibilità. Il disagio che ne deriva è ben descritto nella raffigurazione del “uomo tragico” : perdita di senso, vissuti di noia e di vuoto, angosce di frammentazione e, nel più disadattativo dei circoli viziosi, il narcisismo stesso (la ferita narcisistica porta alla formazione di una idealità grandiosa e alla perenne richiesta di un rifornimento narcisistico che lo confermi).
La personalità narcisistica descritta da Kernberg direi che non presenta tanto un problema di autostima, quanto una patologia dell’autostima, nel senso di una sopravalutazione che non accetta nessun correttivo da parte degli altri. Il dato strutturale è una neoformazione, il Sé grandioso che assembla il Sé reale, il Sé ideale e l’oggetto ideale. Il quadro dinamico è contrassegnato dall’aggressività, dall’invidia soprattutto. Il Sé grandioso è il prodotto dell’invidia e il modo per difendersene, negandola. Pur nella sua patologia è una struttura stabile che assicura una solida identità. Il paziente di Kernberg è un personaggio che detiene a buon diritto un ampio posto in una galleria degli orrori: avido, sfruttatore, egocentrico, distruttivo ecc.
Per quanto riguarda la storia del paziente con un disturbo narcisistico di personalità sono stato assai colpito da una costellazione relazionale già rilevata da Johnson e che ricorre direi sempre, secondo la quale i bambino è stato fatto oggetto di messaggi contradditori : uno dei genitori lo faceva oggetto di grande ammirazione, lo sopravvalutava, mentre l’altro lo sminuiva costantemente. Di solita le coppie si formano secondo la logica edipica, il figlio prediletto della madre e svalutato dal padre, ma si danno le più svariate combinazioni. Ho avuto un paziente intrappolato nella morsa di un pesante conflitto fra padre e nonno, con il nonno che lo considerava un genio (meglio di suo figlio) e il padre che si sentiva attaccato e lo prendeva in giro (chi ti credi di essere, non sei altro che uno sciocco che sta dalla parte di mio padre). Se la mia ricostruzione è veritiera, la scissione verticale sarebbe il lascito di questa divisione, starebbe a significare l’introiezione di una vicenda vissuta; e l’erompere del narcisismo grandioso in questo caso non sarebbe tanto, o per lo meno non solo, il movimento difensivo del bambino contro l’autorappresentazione svalutata,quanto farebbe parte del giuoco relazionale fra i genitori. Una situazione invivibile: l’esaltazione lusinga, ma fa violenza alla realtà di un bambino che vuole mostrarsi nella sua debolezza e nei suoi bisogni di accudimento e contemporaneamente proprio l’altra persona, che dovrebbe offrire aiuto, attacca e deride la grandiosità del bambino che è il riflesso del narcisismo altrui e che egli non può rifiutare. L’analisi del Sé reale, oltre a mostrarne le potenzialità inespresse, ci conduce a ripercorrere le tappe di questo dramma.
Altri autori riportano altri tipi. Ne richiamerei due, a mio parere caratterizzati, a differenza dei primi già descritti, dal fatto di aver ricevuto dall’ambiente un messaggio sostanzialmente univoco. Si possono distinguere due situazioni. Abbiamo famiglie che per i più vari bisogni narcisistici esaltano il figlio. Questi cresce viziato, non tanto nel senso che gli si concede tutto,(anzi è fatto oggetto di forti richieste) ma in chiave narcisistica. Ne consegue che dovrà essere sempre al centro dell’attenzione, che esige lodi e ammirazione, che è per definizione superiore agli altri ecc. (Bleichmar) Sono i pazienti che io chiamo “del paradiso perduto”; entrano in crisi perché incapaci di reggere l’urto di una realtà troppo frustrante. Non ci sono abituati (un paziente mi diceva: non sono allenato a stare al mondo). Il mio primo paziente aveva proprio questo problema, era “il principino” della famiglia, figlio di un grande industriale che era poi fallito lasciando la famiglia nell’indigenza.
Vi sono poi i pazienti che sono cresciuti come “l’ ultima ruota del carro”. Di solito sono di sesso femminile,in subordine rispetto al fratello maschio. Ma non è detto che sia così. Una mia paziente invece aveva sempre avuto a che fare con la depressione della madre dovuta alla prematura morte della prima figlia. La paziente aveva sempre cercato, ma non era mai stata in grado di supplire con la sua presenza a ciò che la madre aveva perduto. Bleichmar li descrive cogliendo sul piano dinamico un” deficit primario di narcisizzazione non compensato”. L’intervento del clinico naturalmente si rovescia rispetto al primo.
I pazienti di questi ultimi due tipi mi sembra che si possano differenziare dagli altri perché sono abbastanza stabili per quanto riguarda il livello dell’autostima. Sempre troppo alto nel primo caso con tendenza alla megalomania, sempre troppo basso nel secondo, con tendenza alla depressione.
Considerazioni.
Le concettualizzazioni di Kohut e Kernberg, in netta contrapposizione fra loro, sono state al centro di una vera bagarre. Ne ho discusso in vari articoli e vi accenno solamente.
Non è certo questo il primo caso in cui le opinioni divergono in modo netto. Basti pensare all’isteria, per alcuni una modalità seduttiva a fini di potere, per altri l’unica modalità di approccio di una bambina sfruttata e troppo insicura dei suoi sentimenti. O alla stessa schizofrenia. Ricordo un congresso a Losanna nel quale descrivevo le “aree di morte” del paziente seguendo le concettualizzazioni di Benedetti, mentre nella relazione successiva Racamier sosteneva che lo schizofrenico era, se mai, troppo vivo poiché voleva la realtà asservita alle sue pretese onnipotenti. Io penso che la diagnosi serve per delimitare il centro e che proprio per questo trascura gli elementi che stanno alla periferia; inoltre il teorico tende, a fini di chiarezza, ad assolutizzare i suoi reperti. La complessità è invece il regno della clinica. In particolare, l’isterica davvero porta dentro di sé l’intenzione di castrare il maschio, ma è altrettanto vero che troppo spesso le sue modalità vengono interpretate come seduttive e non come un obbligo a piacere a cui è forzata dalla sua storia. Naturalmente non esiste isterica che sia uguale all’altra. E così possono essere in grande evidenza gli aspetti manipolatori della fissazione fallica oppure la domanda di vicinanza proveniente da un bisogno orale. E possono porsi più in evidenza alcuni aspetti rispetto ad altri nel corso del trattamento. Comunque sempre di isteria si tratta. Tornando al nostro tema allora, sempre di disturbo narcisistico di personalità si tratta,con delle varianti. Se ci riferiamo alla scissione verticale potremmo supporre che alcuni pazienti stanno prevalentemente nella parte deprivata (sono quelli che descrive Kohut), altri (di gran lunga in numero maggiore) oscillano fra l’autorappresentazione grandiosa e quella svalutata e i rimanenti si situano stabilmente dalla parte inflazionata narcisisticamente (quelli descritti da Kernberg). In questo modo abbiamo risolto il problema, per giunta in accordo con la letteratura più recente. Sono d’accordo,mi pare che sia proprio così. I Abbiamo dunque due tipologie : il narcisista ipervigile, che vive nel timore che gli altri si accorgano del suo stato di inferiorità e soprattutto del suo bisogno di ammirazione e il narcisista inconsapevole che non si vede in alcun altro posto che non sia al centro dell’attenzione. Rimane però il quesito di come trattare il disturbo che presentano i pazienti che si situano nell’area intermedia, fra i due estremi, ossia se adottare il punto di vista di Kernberg,tutto centrato sull’attacco che il narcisismo grandioso porta all’oggetto o di Kohut,che sottolinea invece gli aspetti deficitari del Sé.
Provo a spostarmi sul piano clinico.
Un primo dato è che se mettiamo i pazienti narcisisti in trattamento lungo una scala, a partire dal narcisista ipervigile, caratterizzato da continui dubbi sul proprio valore (con le più varie manifestazioni di malessere, fino alla depersonalizzazione) fino al narcisista inconsapevole, caratterizzato da una prepotente affermazione del proprio valore, a me sembra che ad un certo punto del percorso non vi sia una progressione continua, ma un salto di qualità, un cambiamento a carattere strutturale. Il narcisismo si rivela davvero come“inconsapevole” nel senso che giunge a chiudersi ad ogni possibile problematizzazione e anzi si trasforma in un nemico,si rivolta contro l’analista. Accade anche con trattamenti di altro tipo. Tornando all’isteria può accadere qualcosa del genere quando ci si trova di fronte ad esempio a certi atteggiamenti di freddo e spietato sfruttamento e ci si orienta verso il narcisismo patologico. Kernberg apparenta il narcisismo patologico alla sindrome borderline, e non è certo un caso. La stessa dicitura “inconsapevole” rimanda ad una impossibilità all’introspezione che richiama la psicosi. Per quanto riguarda il rapporto con l’analista, i pazienti ipervigili evidenziano resistenze di transfert, questi secondi invece resistono al transfert, ossia negano la relazione, per via della dipendenza che essa comporta. Entrambi sono irritabili quanto impulsivi. Tuttavia i pazienti del primo tipo quando attaccano l’analista è perché non si sentono capiti; il loro desiderio in fondo è che l’analista rappresenti una figura da idealizzare e da cui essere amati, se non, come obiettivo potenziale, da amare. Quelli del secondo attaccano l’analista quando si sentono capiti. Detto altrimenti, i primi hanno la nostalgia di una relazione nella quale i loro bisogni vengono considerati e si permettono,pur fra mille resistenze, di accomodarsi nel nuovo contesto affettivo che l’analista loro propone. I secondi avvertono questa eventualità come la trappola da evitare, come l’ennesima ferita al loro narcisismo. La parentela con l’angoscia paranoide (il bisogno del paranoico è quello di non avere bisogni, Zapparoli) mi sembra evidente. Ricorrendo ad un’immagine: abbiamo un animale ferito che reagisce alla carezza del soccorritore prendendogli in bocca la mano, ma senza morderla in un caso e per morderla comunque nell’altro. Se non dalla paranoia, siamo comunque a un passo dalla psicopatia; l’altro va sfruttato o battuto. La più evidente delle difese è la negazione e nel rapporto il controllo onnipotente : la persona dell’analista viene assimilata ad una funzione, ha ragione di esistere solo come una fonte di rifornimento narcisistico e ogni tentativo dell’analista di tornare ad essere vivo viene percepito come un attacco. Anche sul piano controtransferale la risposta dell’analista è assolutamente divergente: vicinanza e comprensione per l’uomo “tragico”, ripulsa e ostilità per il secondo. In conclusione per i primi il problema narcisistico si pone anche come una domanda di aiuto, per i secondi come il rifiuto dell’aiuto. Il risultato è che sono difficilmente analizzabili, anzi, per quel che mi riguarda,mentre ho trattato con discreto successo vari pazienti narcisisti, devo ammettere che con questi ultimi ho sempre fallito. Può darsi che si tratti di un difetto di tecnica; ad esempio nel caso di Adam che Rosenfeld descrive nei dettagli sembra che il serrato lavoro sulle difese e sul transfert negativo porti a dei risultati. Insomma lungo il percorso non c’è continuità: la parte conclusiva sembra staccarsi dal resto. Tanto da chiedersi se non faccia parte di una categoria psicopatologica a se stante; ad esempio da situare in un’area intermedia fra la paranoia, la maniacalità e la personalità narcisistica. Ne abbiamo un istruttivo esempio nel caso portato da Mazzotta per la rivista, che infatti a me è sembrato pertinente riferire più alla paranoia che al narcisismo patologico. Dunque non solamente condivido la differenziazione dei pazienti in due tipi,ma darei un taglio netto. Anche se è evidente l’ossessione per il valore della propria immagine, questi pazienti presentano una patologia da includere non tanto nel disturbo narcisistico di personalità quanto piuttosto nella sindrome borderline.
Il narcisista inconsapevole
Comunque la diagnosi per pazienti di questo tipo è un vero rompicapo. Di solito vanno incontro a ripetuti fallimenti, sono destinati ad una vita di relazione e lavorativa che con il tempo si va sempre più impoverendo, fino ad esiti anche drammatici. Anzi non c’è nulla di più penoso del vecchio narciso caduto in depressione. Va detto però come parecchi sappiano cavarsela piuttosto bene nella vita e come alcuni di loro anzi,siano persone di grande successo nei più vari campi, dalla politica, all’industria, alla finanza, alle libere professioni ecc. Sembra dunque che abbiano una grande presa sulla realtà. Ma allora, sono sani o sono malati? Oppure, detto diversamente, il Sé grandioso va considerato una struttura che rafforza l’identità o che si pone come una barriera difensiva insuperabile. Fanno bene o fanno male quando ci scaricano come altrettanti pesi morti che li appesantiscono nella loro corsa invece di aiutarli a correre di più? Si tratta della fuga dovuta all’angoscia o di una manifestazione di forza? Sappiamo cosa rispondere: funzionano magari benissimo in alcuni settori, ma sono degli analfabeti sul piano affettivo e quindi un disastro nell’ambito relazionale. E se si va sotto il brillio della superficie soffrono dei più vari disturbi, dalle più varie forme di dipendenza, alle più strane bizzarrie, agli sbalzi di umore, alla impotenza ecc. Sta di fatto però che ottengono quello che vogliono, che sanno scegliere il partner masochista su misura, che quando hanno distrutto un rapporto, già ne stanno inventando un altro; e che comunque con i quattrini, se sono tanti, o se si ha potere, si risolvono tante cose. Forse noi diamo troppa importanza alla questione della analizzabilità. Nella mia personale biografia divido i pazienti in due grandi categorie: quelli che vogliono fare i conti con la loro patologia (anche se ne hanno troppa paura e non ci riescono), e quelli che non rinunceranno mai ai vantaggi (narcisistici, ovviamente)che essa comporta. Sono i pazienti più gravi, gli psicotici per esempio. Il narcisista inconsapevole fa parte di questo gruppo. Non sa cosa sia la gratitudine, la reciprocità, l’assunzione di responsabilità, la verità che sta nella dipendenza o nella depressione; e non ne vuole proprio sapere. Ciò che conta è la sottile euforia che nasce dalla libertà senza legami, dall’egocentrismo, dalla distruttività immune dalla colpa, insomma dall’onnipotenza. Dunque la diagnosi è severa. Ma se fossimo nell’errore nel credere che siamo noi i giudici della salute mentale? Di fatto, trovano comunque le compensazioni che cercano; a scapito degli altri, d’accordo, ma se gli altri sono disponibili, perché non farlo? Io credo che questi disturbi caratteriali rappresentino la più grande sfida per la psicoanalisi, uno sberleffo per tutto quello a cui noi più crediamo. Sappiamo quanto i nostri strumenti siano sostanzialmente inefficaci per i disturbi più gravi; ma in questo caso ci troviamo impotenti con persone che fanno della realtà sociale il punto di forza per la loro supremazia nei nostri confronti. Credo che il motivo della brutta fama di cui gode il narcisismo sia dovuto a loro, agli effetti distruttivi della loro presunzione ed egocentrismo. Per discuterne più a fondo introduco un altro tema.
Le compensazioni narcisistiche
Il comportamento del narcisista si può leggere per intero come un tentativo di riparazione della ferita narcisistica sottostante. Dalla tossicomania, all’illusione di una grandiosità onnipotente, alla ricerca dell’oggetto sé, all’anoressia, alle azioni contro fobiche, ai gesti auto lesivi, al sadomasochismo ecc. Per questi pazienti vale il vecchio detto: chi si ferma è perduto. Non si possono capire se non si afferra la continua tensione che è parte di questo tipo di patologia: il paziente da un lato non può fermarsi a riflettere su di sé e dall’altro è continuamente alla ricerca di un meglio che gli manca. Queste condotte hanno un evidente significato difensivo contro l’angoscia e il dolore, ma vanno distinte dalle difese propriamente dette (in questo caso di natura primitiva, come la scissione, l’identificazione proiettiva, la negazione maniacale ecc.),sono manifestazioni del problema sottostante, hanno un carattere compensatorio. Il nevrotico viene in terapia quando cedono le difese, il narcisista quando le compensazioni non sono più in grado di nascondere la sofferenza sottostante. Il suo obiettivo sarà quello di trovarne altre e la terapia viene di solito usata per questo fine. Da qui le frequenti guarigioni di transfert (questo è il grande rischio che comporta l’atteggiamento alla Kohut) o le brusche interruzioni se diventa chiaro che non è questo lo scopo che il terapeuta sta perseguendo.
Il narcisismo grandioso adotta come difesa innanzitutto la negazione in chiave maniacale della realtà e dei limiti che essa impone. Se la risposta dell’ambiente gratifica, o comunque si accompagna alla grandiosità invece di contrastarla, abbiamo a che fare con una distorsione della realtà che invece di venire smentita dai fatti sembra venire confermata come plausibile dalla realtà stessa. La conseguenza è che il sistema difensivo diventa impenetrabile perché si dovrebbe addirittura mettere in discussione la realtà stessa in quanto collusiva. È come se il paziente dicesse che si può fare, che anche altri lo fanno e dunque non si vede dove sta il problema. Siamo dunque di fronte ad un paradosso. Se il narcisismo si scompensa esso si pone come un problema per il soggetto ed questi allora potrebbe essere motivato a chiedere un aiuto (la personalità narcisista). Se, in caso contrario, la manipolazione dell’ambiente riesce, avremo un individuo evidentemente più forte o più fortunato, il quale in conseguenza dei suoi successi diventa sempre più sicuro di se stesso e dunque… inguaribilmente patologico. In conclusione non si può non convenire con la descrizione che Kernberg ci offre di questi pazienti. Occorre però fare delle differenziazioni. Non tutti i narcisisti inconsapevoli appartengono a questo tipo, alcuni accettano di problematizzare la loro condizione e sono analizzabili.
Un plauso pieno a Kernberg allora, che ci ha dato una grande lezione di obiettività, perché in quanto terapeuti spesso ci accade di esitare nel dare giudizi di così aspra condanna e rischiamo di non vedere la straordinaria violenza con cui questi pazienti si approcciano al terapeuta!
Secondo dato, per quanto riguarda Kohut. Mentre il paziente descritto da Kernberg ovviamente esiste, il paziente kohutiano (chiamiamolo così) indubbiamente c’è, ma non si presenta con la stessa evidenza. Anzi direi, affinchè lo si trovi, che vada cercato; è,in qualche maniera, creato dal terapeuta, dalla risposta che dà il terapeuta (credo che questo sia il motivo per cui Kernberg non lo vede). Si tratta, in altre parole, di cogliere nelle smagliature della facciata grandiosa quei segnali di sofferenza che chiedono di essere riconosciuti. Porto una seduta. Una paziente sballottata dalla scissione dell’oggetto e del Sé ora idealizzati, ora svalutati, furibonda con il mondo e con se stessa, cambia discorso e per farmi capire cosa prova mi dice : “Se io guardo quel suo quadro alla parete lo giro e lo rigiro e vedo tutti i particolari, li scompongo e li rimetto insieme e ne posso parlare per ore, sono un mostro di bravura, ma mi devo fermare perché poi il quadro non lo vedo più, non c’è, scompare; e se qualcuno mi dice che c’è mi arrabbio ancora di più”. E alla fine della seduta, alzandosi : “Dottore, non capisco come funziona la terapia, io porto dei pezzi, lei andrà in confusione” (ossia, io provo a dire chi sono, ma temo di indurla ad una frammentazione). E il sottoscritto:”Non succede così, è senz’altro complicato, ma è tutto chiaro (ossia riesco a ridarmi coesione e te la propongo)!” Nella seduta successiva è trionfante perché ha superato una prova difficilissima, è piena di disprezzo per l’esaminatore che si è fatto infinocchiare da lei, teme per giunta che le diano quel posto di lavoro perché è a dei livelli assolutamente troppo alti per lei, forse però è bravissima ecc. Commento che è molto complicato, è tutto troppo su e troppo giu. Finisce dicendo: “ È una vita che parlo per farmi capire e non mi è mai riuscito con nessuno”(a significare che con me le riesce).Avrei potuto accennare al transfert, dire della rabbia per l’autorità, insomma lavorare come sempre facciamo e invece faccio interventi sul piano empatico come se le dicessi che capisco quanto sia difficile avere a che fare con una persona così contraddittoria come lei si ritrova ad essere e, ancora di più, che sono stato a guardarla con attenzione mentre lei si esibiva nei suoi racconti (la paziente è molto esibizionistica,anche se in modo diverso dalla isterica). E la paziente mi risponde di conseguenza che con me si può parlare. Insomma,a partire dalla disperazione della paziente (“non ho fatto altro che casini e tutti non mi hanno detto altro che facevo dei casini”), sto costruendo un transfert narcisistico che lasci spazio alla grandiosità (la paziente protesta, quasi grida che ci tiene a fare i casini e li farà sempre perché lei è fatta così) e alla idealizzazione (solo tu mi puoi capire). Dopo qualche settimana la paziente che continuava a chiedere delle interruzioni va quasi in confusione (mi telefona, sbaglia orario) in seguito ad una mia assenza! Quindi, non solo intendo la paziente come una paziente kohutiana, ma credo si possa dire che la configuro come tale. Questo accade in modo spontaneo per via della risposta controtransferale, ma anche perché intendo in questa risposta un risvolto terapeutico e quindi la assecondo. Dietro infatti ci sta la convinzione che contrapporre il dato di realtà alla lettura della realtà del paziente o mostrare le difese, significa implicitamente aggiungere un’ulteriore critica a quella che già si sta portando lui e dunque infliggere una frustrazione del tutto inutile perché il paziente non la sa utilizzare e quindi sarebbe di danno allo svolgersi della terapia. Mi sembra che sia soprattutto questa la lezione di Kohut : si deve accettare se non costruire il transfert narcisistico e solo dopo,ma sempre muovendosi in questo contesto affettivo, si potrà assumere una condotta più interpretativa. Sono assolutamente d’accordo. E constato che il paziente si sente capito, si coinvolge e si registrano cambiamenti anche notevoli in breve tempo. Nutro tuttavia dei dubbi per quanto riguarda i tempi e le modalità. Infatti sono arrivato a constatare che mentre mi pongo senza particolari difficoltà come l’oggetto-sé invocato dal paziente, lo faccio solo per brevi periodi e alternando interventi che rientrano nella tecnica usuale. Mi sembra infatti di finire per essere troppo accettante, troppo materno e temo di infantilizzare il paziente. Il quale non è solo un bambino frustrato, ma è anche un adulto responsabile che può avere pretese eccessive, essere assurdamente permaloso, portare attacchi, svalutare ecc.; mostraglielo, quando si avverte che la relazione si è attestata su basi solide, significa, per lo meno nella mia intenzione, interloquire con la parte adulta e questo comporta anch’esso una forma di valorizzazione. Inoltre cerco di evitare che il paziente avverta nell’analisi solo una forma di compensazione che possa esitare in una guarigione di transfert; mentre temo inoltre di rimanere invischiato nelle secche di una idealizzazione reciproca che diventi sempre più difficile da analizzare. E infine cerco di sopperire alla mancanza di una funzione superegoica che faccia da freno agli aspetti grandiosi. In buona misura dunque condivido le critiche che si muovono alla Psicologia del Sè, in particolare la semplificazione della patologia ridotta alla sola problematica narcisistica, la conseguente sottovalutazione della conflittualità edipica, dell’aggressività ecc. In fondo temo una eccessiva regressione o idealizzazione. Potremmo dire che si tratta di far rivivere nel transfert i bisogni infantili disattesi e repressi (in questo caso di natura narcisistica), esattamente come per tutte le nevrosi, ma mi sembra che Kohut proponga una sorta di esperienza emozionale correttiva, quasi una compensazione del trauma infantile. Questo va al di là delle mie intenzioni (non vedo come l’analisi possa riempire un vaso vuoto) o capacità di gestione del rapporto. Un punto importantissimo su cui non si riflette mai abbastanza è che le terapie di oggi a 2 sedute non possono che essere assai diverse di quelle di un tempo a 4 se non 5 sedute la settimana. È fondamentale comunque non perdere mai di vista il bisogno di valorizzazione del paziente. Deve essere questo l’intendimento, anche quando si lavora sulle difese e sul transfert negativo (sappiamo che l’utilizzo che il paziente fa dell’interpretazione è legata alla modalità con cui viene posta). Scopriremo allora che il paziente così aggressivo in apparenza in fondo difetta in propositività, così deciso nelle sue prese di posizione in fondo è estremamente dipendente e insicuro, cosi centrato su di sé in fondo manca di forza nelle relazioni. E ancora, che non tollera la vicinanza perché non crede di essere amato e anche, paradossalmente,ciò che teme soprattutto è proprio di venire apprezzato per le sue qualità. Il paziente è nel deserto, è un robot, è bruciato dal fuoco, si guarda nello specchio per vedersi e teme di vedersi ecc.(mi riferisco a contenuti dell’immaginazionet onirica).Ha ragione Kohut, la via dell’amore per l’altro passa per la rivitalizzazione del Sé. Non solo, sappiamo come molto spesso il nemico non sta affatto nel narcisismo, ma nelle tante relazioni che lo mortificano e che la paura, altrettanto frequentemente, ha ben poco a che fare con la dipendenza, ma con l’audacia di affermare il proprio valore nel mondo.
Sono dunque del parere che Kohut abbia dei grandi meriti. Ne enumero alcuni.
1) La rivisitazione dell’Edipo che pone l’antagonista come modello ideale da amare oltre che come avversario da combattere.
2) La chiamata in causa dell’analista come coattore del rapporto. Eagle sottolinea come la Psicologia del Sé sia tutta’altra cosa rispetto alla Psicologia della relazione oggettuale, ma a me sembra che che Kohut sia stato l’assoluto protagonista del passaggio della psicoanalisi da una a due persone.
3) Ha saputo individuare la condizione dell’uomo “tragico”, magica intuizione che ci illumina sulla mancanza di senso dell’uomo moderno e sui significati più nascosti della problematica narcisistica.
4) Ha rivalutato il narcisismo, prima solo colpevolizzato. Forse è l’autore che ha dato più contributi alla psicoanalisi e non credo che sia oggi possibile lavorare senza averne preso atto.
In conclusione, non si tratta di stare dalla parte di Kohut o di Kernberg. Sta al clinico decidere quale delle due posizioni adottare, in relazione alle finalità terapeutiche da adottare per quel particolare paziente, per il “suo paziente”.
La frustrazione e la ferita narcisistica
Si fanno continue sovrapposizioni fra i due termini, mentre vanno differenziati. La ferita è il risultato della prolungata frustrazione del naturale narcisismo del bambino. Il termine è molto evocativo: una ferita comporta una continua emorragia, un costante depauperamento di libido narcisistica. La frustrazione è ciò che accade all’adulto e attiene alla distanza che intercorre fra il Sé attuale e il Sé ideale.
Narcisismo sano, narcisismo malato
Riporto le tesi di Hanly. Questo autore distingue due tipi di narcisismo, quello che proviene dall’Io ideale e quello dell’ideale dell’Io (termini entrambi usati da Freud, ma non differenziati fra loro). L’Io ideale è il diretto erede del narcisismo infantile, è l’Io-piacere incondizionato, un Io illusorio, uno specchio idealizzante nel quale l’Io reale può contemplarsi relativamente indisturbato dalla realtà. Ha a che fare con una segreta, personale, puramente soggettiva rappresentazione del Sé come essere perfetto, come un essere amabile ed amato. Invece l’ideale dell’Io è ciò che si vuole essere avendo a modello il genitore idealizzato. Se l’identificazione riesce si avrà il ritorno sul Sé dell’investimento narcisistico idealizzante, il narcisismo secondario (come scrive Freud, l’Io modificato fa di se stesso un oggetto di amore). “L’ideale dell’Io rappresenta un’identità da raggiungere, l’Io ideale rappresenta anch’esso un’identità, ma già raggiunta. L’ideale dell’Io è attivo, l’Io ideale è passivo. L’ideale dell’Io internalizza la struttura della relazione individuale dalla quale deriva, l’Io ideale la nega allo scopo di preservare l’illusione dell’autosufficienza.L’ideale dell’Io (assieme agli aspetti di divieto del Super io) è la fonte della moralità, l’Io ideale è la fonte di un’illusoria ontologia del Sé”. L’Io ideale è in opposizione all’esame di realtà e nega il tempo; la sua funzione è consolatoria; si fonda sui dinieghi e da questi è mantenuto in vita. Dunque il narcisismo sano è il narcisismo secondario, quello dell’ideale dell’Io. Poiché le due dimensioni del valore attribuito al Sé sono in opposizione (la perfezione in se stessa non tollera una perfezione relativa e da conquistare) entrano in conflitto (e va da sé che occorre elaborarlo). Ho riportato per esteso perché l’insieme della riflessione ha il grande pregio di svolgersi senza fare riferimento a fattori esterni al narcisismo, quali la capacità di relazione o l’aggressività, ma sta tutta all’interno dei bisogni narcisistici del Sé. A una perdita in termini di onnipotenza, corrisponde un guadagno poiché mentre si raggiunge la potenza, la stessa si valorizza tramite il ritorno idealizzante narcisistico. E qui sta la salute. Chi ha successo attraverso la sua capacità e le sue opere avrà considerazione, ammirazione per se stesso, godrà di continui rinforzi narcisistici. Se infatti non fosse così saremmo paradossalmente alla presenza del narcisismo patologico che non sa apprezzare i risultati se non conseguiti subito e senza fatica. Hanly esprime il più netto disaccordo rispetto a Kohut, ma arriva alle sue stesse conclusioni: il percorso da seguire è lo sviluppo del narcisismo, da arcaico a maturo. Siamo assolutamente d’accordo, si è trovata una posizione di equilibrio fra la psicoanalisi classica e la psicologia del Sé. In questo modo diventa possibile sviluppare la grande intuizione di Freud a proposito del narcisismo spostato sull’oggetto tramite l’idealizzazione. A me sembra evidente: ci si abbandona alla relazione e contemporaneamente si rimane sempre e comunque immersi in se stessi. E tuttavia…è troppo chiaro, anche questa è una visione parziale che va ampliata. L’Io ideale viene letto come un a priori che impedisce lo sviluppo. È vero. Tuttavia, come ci dice Sandler, l’idealità è anche l’impossibile che mai si raggiunge (è tutta davanti all’Io, o meglio, sopra)e la cui ricerca lascia sfiniti in una continua alternanza fra euforia e depressione. L’Io ideale sembra essere il vizio, il peccato originale della persona che sta a rimirarsi nella sua perfezione. È vero. Tuttavia è anche il segno dell’alienazione subita da un bambino impossibilitato a sviluppare un suo programma di vita, in linea con le sue potenzialità e desideri. L’Io ideale è irrealistico. È vero. Tuttavia è ancora più irrealistico pretendere che si possa vivere la vita per quello che è. Chiunque atterrasse sul pianeta terra senza il paracadute della illusione si ritroverebbe con le gambe spezzate. Il narcisismo non si lascia ridurre a ciò che va combattuto come difensivo(come in questo caso), né a ciò che va potenziato (la Psicologia del Sé) e, per giunta, neppure tollera differenziazioni troppo nette (anche se esplicative). Freud, come ci dicono le sue biografie, non aveva affatto stima di suo padre, mentre idolatrava ed era idolatrato dalla madre. Un altro si sarebbe lasciato irretire dai sogni di grandezza della madre, lui li ha saputi realizzare. Nel primo caso l’Io ideale si sarebbe arreso di fronte alla realtà; nel secondo caso la follia dell’Io ideale si è data un traguardo e ha avuto la forza di fare breccia nella realtà fino a scoprirne aspetti prima celati. Un paziente, grande scalatore, mi parlava di una pericolosissima scalata con un compagno anche più bravo di lui. Impressionato e anche piuttosto allarmato, mi domandai quante fossero le probabilità di sopravvivenza. Rispose che erano il 50%. “E chi dei due morirebbe? “. “L’altro”, mi rispose ridendo. Chiesi ancora: “E si può pensare che l’altro pensi la stessa cosa!”. E la risposta: “Naturalmente, altrimenti nessuno dei due farebbe la scalata!” Ora, io mi chiedo: avevo a che fare con uno, anzi con due matti o con due grandi alpinisti? Detto diversamente, i tanti obiettivi estremi di cui l’umanità va così fiera una volta conseguiti, come si potevano raggiungere senza credere ciecamente, a priori, in se stessi?
Non è così semplice differenziare il narcisismo dell’ideale dell’Io, da quello dell’Io ideale e neppure va demonizzato l’Io ideale perché è la più fisiologica delle difese nei confronti della brutale violenza della realtà. Ci diciamo di dover morire, presto o tardi, ma nessuno di noi ci crede davvero; e va bene così, non c’è altro modo di mantenerci vivi.
Sembra che faccia dei ragionamenti che girano in circolo intorno a loro stessi senza mai distendersi fino ad arrivare da qualche parte; ma non si può fare altrimenti. Lo stesso discorso si può fare per l’aggressività, un termine che sempre evoca risvolti negativi, quando sappiamo che non c’è nulla di più fisiologico di una sana aggressività e che larghissima parte dei nostri pazienti è sprovveduta proprio sotto questo aspetto. Il paziente è un narcisista perché… non è abbastanza narcisista; non sa amarsi, è un narcisista sbagliato. Dunque la strada da seguire per capirlo e curarlo non può che seguire il più tortuoso dei discorsi: battere il narcisismo grandioso, assolutamente batterlo, affinchè prenda piede l’altro narcisismo; ma a partire dalla premessa che il paziente non ha altri mezzi per difendersi da angosce altrimenti intollerabili. Dunque il narcisismo grandioso non lo si può attaccare, non si può ridurre alle sue funzioni difensive, ma va anche accettato, se non gratificato. Tutto questo perché ci si dia spazio e tempo in quanto l’altro narcisismo non si dà certo spontaneamente, ma si costruisce nella relazione e con il lavoro in comune. I due movimenti si rincorrono: si “narcisizza” il paziente affinchè si “denarcisizzi” e viceversa. Ricorrendo ad espressioni diverse da quelle usate da Hanly, ma che in fondo rimandano agli stessi concetti, possiamo dire che si tratta di disinvestire il Sè grandioso e di investire il Sè reale che sta sotto la scissione orizzontale Un paziente, grandioso fino alla maniacalità, dopo un lungo lavoro, ha ben dialettizzato il nodo che non gli riusciva di svolgere. Più capiva quanto l’irrealtà delle sue aspettative lo paralizzasse e più si sentiva davvero potente, più temeva che la sua analisi si svolgesse secondo la vecchia logica dell’onnipotenza e dell’autoincensamento; gli sembrava infatti impossibile, assolutamente straordinario, che lui potesse cambiare e poiché cambiava non poteva che rivolgere a se stesso (implicitamente, è ovvio, anche a me) tutta la sua ammirazione (correndo dunque il rischio di tornare ad essere l’eroe che era sempre stato e a mitizzare la figura del padre).
Occorre infatti prendere in considerazione che queste terapie si svolgono all’insegna della minaccia della castrazione e a lungo andare sono comunque molto frustranti. Accennavo più sopra che abbiamo a che fare con un Super io corrotto, vale a dire con un complesso sistema di valori che non possiamo non mettere in discussione. Ne deriva che si arriva sempre ad uno scontro che di solito prende l’aspetto di una contrapposizione ideologica e si corre quindi il rischio di essere percepiti come troppo normativi Lo stesso paziente che non sapeva credere di essere riuscito a cambiare mi aveva portato anni prima il sogno di un chirurgo che lo operava al cervello a sua insaputa, mentre era sotto anestesia e gli inseriva dei pezzi non suoi!
In fondo credo che si sia tutti d’accordo. Le differenze stanno nelle modalità, nelle sfumature dei presupposti teorici. In Hanly, che pure è così convincente, si ha come l’impressione che tenda a perdere di vista le ragioni dell’idealità arcaica. Estremizzando, lo si potrebbe accusare di idealizzare le ragioni della realtà, paradossalmente una deriva narcisistica del suo pensiero.
La stessa obiezione, a maggior ragione, si potrebbe rivolgere a Kernberg. A Kohut si può fare la critica contraria. Ad esempio la paziente di cui ho parlato pretende che la curi per i suoi attacchi di panico venendo da me tre sedute al mese, ha già deciso lei come deve andare la terapia! In conclusione, ancora una volta, è necessario muoversi all’interno di un quadro che si avvalga di opzioni di natura teorica il più possibile chiare e definite; spetta però al clinico trovare di volta in volta lo stretto sentiero da percorrere con il suo paziente.
Considerazioni
Sapevo di muovermi su un terreno minato. A me sembra di padroneggiare abbastanza bene l’argomento, ma l’enunciazione iniziale, portare degli elementi di chiarezza, mentre pare che rimandi ad un obiettivo modesto,in realtà è estremamente impegnativa. Ci si muove lungo un percorso ad ostacoli, già sul piano terminologico. Ad esempio il Sé grandioso (Kernberg) non è il Sé ideale (Sandler) e neppure l’Io ideale (Hanly) e il Sé ideale non è l’Io ideale; eppure tutte e tre le espressioni si riferiscono alla grandiosità; e ancora,il Sé nucleare non è il Sé reale. Problematico poi è il concetto stesso del Sé che si è venuto imponendo proprio per definire il bersaglio del movimento narcisistico e significa allora la totalità della persona; ma Freud continua a fare riferimento all’Io, per Sandler è una rappresentazione, per Kohut è un agente attivo ecc. I bisticci linguistici si stendono per ogni dove in linea con le diverse teorizzazioni. Faccio un altro esempio. Il Sé intrattiene con gli oggetti interni un insieme di relazioni narcisistiche e perverse (Steiner); ne consegue, affinchè possa liberarsi da questi legami, la necessità di una operazione che comporti, utilizzando il linguaggio nel quale mi riconoscono, un rinforzo narcisistico del Sé!
Quindi gli obiettivi iniziali sono stati raggiunti solo parzialmente. Per di più, lo scritto si fa notare, se mai, per tutto quello che non ho detto. Credo però che la multiformità dei vari punti di vista di cui “soffre”attualmente la psicoanalisi non debba esitare in una sorta di scoraggiamento, ma anzi possa essere la migliore delle opportunità per riflettere sulla complessità del materiale clinico.