Questo lavoro (con una piccola modifica relativa alla citazione dell’articolo “Narcisismo sano?”, che lì è diventata parte integrante del testo) è stato presentato il 10 ottobre 2012 al al XVII INTERNATIONAL FORUM OF PSYCHOANALYSIS, Mexico City, Mexico, October 10 - 13, 2012, nella Tavola Rotonda “Constructive and destructive tendencies”.
Spesso gli psicoanalisti di corrente relazionale o intersoggettiva fanno riferimento all’idea di un’inscindibilità della coppia “madre-bambino” nella comprensione dello svilupparsi della personalità del soggetto. La visione degli psicoanalisti relazionali non è però univoca sui possibili sviluppi “patologici” del permanere di tale inscindibilità nella vita adulta. La stragrande maggioranza parla di distacco, separazione, taglio del cordone ombelicale, mentre qualcuno tra i più sensibili propone la possibilità di una traccia del legame con la madre che può accompagnare il soggetto anche nella vita adulta, risultando favorevole al suo incontro costruttivo con il mondo. In questo lavoro propongo un parallelismo tra il concetto di Amae, introdotto dallo psicoanalista giapponese Takeo Doi, e la bipolarità necrofilia-biofilia, incentrata sulla figura materna, secondo il pensiero di Erich Fromm.
Il concetto di amae non è immediatamente definibile in una lingua che non sia il giapponese, perché in tutte le altre culture, comprese quelle orientali fuori dal Giappone, non se ne dà un’esperienza immediata. Possiamo dunque arrivare a definirlo cercando di avvicinarci il più possibile con delle similitudini, utilizzando i termini che abbiamo a disposizione nella nostra lingua. “Dipendenza” è il primo, ma, se da un lato universalmente questo termine si collega alla dimensione materna in cui ciascun soggetto si affaccia alla vita, dall’altro, nella cultura occidentale, è un termine usato quasi esclusivamente con una connotazione negativa: dipendenza dal fumo, dalle droghe, dal gioco, e negli ultimi anni dai videogiochi e da internet,… ecco alcuni dei principali mali del nostro tempo, fonti di enormi problemi di ordine sociologico oltre che psicologico, e considerati vere e proprie patologie. Tant’è che quelli che in passato si chiamavano SerT (Servizio Tossicodipendenze) oggi (parlo della realtà lombarda, quella più vicina a me) si chiamano SerD (Servizio Dipendenze) e si occupano (o dovrebbero occuparsi) per l’appunto di tutte le forme di dipendenza patologica presenti nella società.
Il termine “patologico” si presta ad un rilievo, collegato al titolo del libro di Doi. In medicina esiste una disciplina che descrive la struttura del corpo umano, ed è l’anatomia; esiste poi una sottodisciplina, diventata disciplina a sé stante, che si occupa della struttura del corpo malato, ed è l’anatomia patologica; l’attività principale del medico anatomo-patologo è l’autopsia, cioè lo studio dei cadaveri che permette, sezionandoli, di entrare dentro di loro e capire quale alterazione anatomica ha prodotto la morte della persona. Trasponendo a mo’ di metafora questo discorso in quello che stiamo facendo, possiamo pensare (ma leggendo il libro di Doi lo si capisce benissimo) che le letture “patologiche” di amae e della dipendenza in generale, prodottesi nella prospettiva occidentale al problema, sono lontanissime dal pensiero di Takeo Doi, e non rendono la complessità del concetto di amae, né dell’idea giapponese di “dipendenza” anche nel senso più esteso.
Guardare ad amae dal punto di vista occidentale significa studiare l’anatomia patologica della dipendenza, rendendo “cadavere” il corpo vivo della medicina cinese, e considerando la dipendenza come qualcosa che nuoce al soggetto e si contrappone al suo rapporto maturo con il mondo.
Un punto fondamentale per la comprensione di amae è dunque questo: amae può essere tradotto con “dipendenza” ma, a differenza che da noi, nel mondo giapponese ha una connotazione positiva, o almeno neutra, senza alcuna implicazione che configuri questa condizione come qualcosa di patologico che per questo debba essere “curato”.
E qui nasce un primo problema, che riguarda la patologia e la cura a livello psichico. Se rispetto al corpo la definizione di ciò che è normale o patologico può relativamente prescindere (almeno per la stragrande maggioranza delle patologie) dalle implicazioni sociali, rispetto alla psiche questo discorso non è più proponibile: per definire la cosiddetta “malattia mentale” non si può prescindere dalla struttura sociale in cui questa “malattia” viene definita. Possiamo dunque trovare nell’idea di amae qualcosa che sollecita la nostra società (intendo quella occidentale) ad interrogarsi sui princìpi che fondano l’idea di “sanità” e “malattia” a livello psichico. Ciò che intendo dire è che per capire il concetto di amae dobbiamo essere disposti ad amplificare i nostri orizzonti rispetto a ciò che è sano e a ciò che è malato, evitando di dare per scontate certe categorie presenti nel nostro mondo di pensieri e rappresentazioni.
Altrove [1] approfondisco ulteriormente il discorso. Già coi presupposti finora esposti ci siamo comunque sufficientemente avvicinati all’idea di amae, almeno secondo la mia concezione.
È qualcosa che si esprime come una dipendenza, che nasce nel rapporto con i genitori, in particolare con la madre, e che crea delle aspettative nei confronti del mondo circostante, che porta ad essere fiduciosi e a non temere di dipendere, ad essere indulgenti con sé stessi e con gli altri e a pensare che i propri bisogni potranno trovare soddisfazione in uno dei luoghi possibili dove andremo, perché ci sarà qualcuno che potrà capirci.
Chiaramente la prima dipendenza che ciascuno vive è quella dalla madre. Spesso gli psicoanalisti, almeno quelli che si muovono in una prospettiva relazionale o intersoggettiva, fanno riferimento all’idea di Winnicott dell’inscindibilità della coppia “madre-bambino” nella comprensione dello svilupparsi della struttura di personalità del soggetto. Questo non comporta però che la visione degli psicoanalisti relazionali sia univoca su quali possano essere gli sviluppi “patologici” del permanere di tale inscindibilità nella vita adulta. La stragrande maggioranza parla di distacco, separazione, taglio del cordone ombelicale, ma qualcuno tra i più sensibili propone la possibilità di una traccia del legame con la madre che può accompagnare il soggetto anche nella vita adulta risultando favorevole al suo incontro con il mondo.
Credo che, se si può vedere qualcosa di amae trasmigrare in occidente, ciò possa configurarsi intorno a quest’idea. E qui ritorna il pensiero di Erich Fromm. Non è, a mio avviso, un caso che Fromm sia considerato uno dei capostipiti della psicoanalisi interpersonale e al tempo stesso sia uno dei pochi psicoanalisti che si siano occupati del pensiero orientale e in particolare del Buddismo Zen. Più avanti vedremo la relazione che ritengo di poter rintracciare tra il discorso che propongo e il buddismo; per ora mi limito a proporre un parallelismo fra il concetto di amae secondo il pensiero di Takeo Doi e la bipolarità necrofilia-biofilia, incentrata sulla figura materna, secondo il pensiero di Erich Fromm.
Eric Fromm, che, come or ora detto, fu uno degli epigoni della psicoanalisi relazionale, affrontò in maniera molto approfondita il discorso della distruttività umana, sia nel celeberrimo Anatomia della distruttività umana [2], sia in un’opera di poco precedente, The heart of man, comparso in Italia col poco felice titolo Psicoanalisi dell’amore [3]. Una delle tesi centrali di Fromm, che mi sento di sposare in pieno, è che esistano due forme ben distinte di aggressività: una, naturale e riscontrabile in tutti gli animali, è espressione di un “andare verso” le cose, per impossessarsene all’interno di una ragionevole lotta per la sopravvivenza; l’altra, pressoché assente negli animali, è quella che più propriamente può essere definita “distruttività”, e che, estranea alla lotta per la sopravvivenza, si esprime nella sopraffazione e nella soppressione dell’altro per il puro piacere di distruggere. Questa seconda forma di aggressività viene da Fromm fatta risalire al rapporto con la figura materna.
Fromm parla di una tendenza alla biofilia o alla necrofilia, a seconda che da parte della madre sia presente un atteggiamento che tende a favorire nel figlio un fiducioso rapporto di apertura verso la vita o invece un ritiro diffidente dalla vita stessa. L’atteggiamento necrofilo è quello che vede pericoli dappertutto, che invita a iperproteggersi e ipertutelarsi, scorgendo in ogni elemento del mondo circostante un potenziale nemico. La distruttività ne sarebbe la naturale conseguenza: il bambino cresciuto in un clima di diffidenza nei confronti del mondo, educato a vedere pericoli e nemici dappertutto, sviluppa nei confronti di ciò che lo circonda un vissuto ostile, che lo induce ad attaccare preventivamente per difendersi. Quella che la Klein chiama “posizione schizoparanoide”, attribuendole una radice naturale e una presenza ineludibile in ciascun soggetto, viene da Fromm ascritta alle tendenze necrofile della madre. È infatti ragionevole pensare che non esistano la madre necrofila e quella biofila come due figure separate, ma che esista una bipolarità sull’asse necrofilia-biofilia che caratterizza la figura materna e ciascun soggetto in relazione ad essa, e che la distruttività di ognuno sia da far risalire all’incidenza della polarità necrofila nel clima relazionale nel quale egli si è formato nella prima infanzia [4].
Ciò che qui intendo sostenere è che la madre prevalentemente biofila sia una madre che instaura col figlio un rapporto caratterizzato da amae. Se è relativamente immediato collegare la distruttività alla necrofilia, può risultare non altrettanto semplice individuare in cosa consistano gli effetti di una modalità biofila di relazionarsi. Sarebbe infatti semplificante collocare al polo opposto della distruttività qualcosa definibile genericamente come creatività, o anche costruttività. Entrambi questi concetti infatti si collegano all’idea di un “dare vita” a qualcosa, di un “produrre” che non è intrinseco al concetto di bio-filia, presupponendo la “filìa” un rapporto di armonia con l’oggetto che non necessariamente deve indurre a rinnovarlo o trasformarlo, ma può portare anche semplicemente ad “accoglierlo”. Tornando all’idea di “aggressività” proposta da Fromm, possiamo pensare che anche quella naturale, quella che va “verso” le cose per impossessarsene nella lotta per la sopravvivenza, abbia ragione di essere se le cose non vengono “naturalmente” a noi. Qualcosa che ci si offre non ha la necessità di essere “aggredita”, e dunque se sappiamo cogliere le opportunità che il mondo ci pone d’innanzi possiamo limitare la nostra aggressività, anche quella non distruttiva, alle situazioni in cui è strettamente necessaria, sviluppando al tempo stesso la capacità di riconoscere le situazioni di disponibilità da parte del mondo a venirci incontro. E qui compare amae. La madre biofila infatti è quella che risponde ai bisogni del bambino, non solo soddisfacendoli quando può farlo, ma anche aiutandolo a relazionarsi al mondo con fiducia, sapendo capire quali sono le situazioni e le persone a cui tale fiducia può essere data. Ciò presuppone il crearsi, nel figlio, di aspettative di soddisfacimento dei propri bisogni e desideri che, attraverso la dipendenza dalla madre, possano essere estrapolate ad alcuni elementi del mondo circostante. E questo è null’altro che amae.
La madre biofila è quella che, riconoscendo le risorse costruttive del soggetto di cui si occupa, ne favorisce lo sviluppo aiutandolo a mettersi in contatto positivamente col mondo. E il fondamento di questo contatto positivo è il rapporto di fiducia tra la madre e il figlio e tra la madre e il mondo, che genera la fiducia del figlio nel mondo. Questo è ciò che concepisco come amae. Un’aura che accompagna il figlio di una madre biofila mettendolo nella condizione di rapportarsi al mondo avendo fiducia nelle proprie risorse e nella possibilità di incontrare luoghi e persone in cui e con cui tali risorse possano attivarsi.
Amae e la madre biofila non creano persone “viziate” o “parassite”, come un malinteso senso comune del mondo occidentale sembrerebbe ritenere, ma al contrario persone che si muovono nel mondo con una certa disinvoltura, perché pronte a cogliere le mani che vengono loro tese da quelle persone disponibili che, poche o tante che siano, sanno riconoscere incontrandole sulla propria strada. Non sono persone “indipendenti” nel senso stretto della parola, cioè non sono preoccupate di badare a sé stesse e di non essere di peso a nessuno, ma accettano l’aiuto quando viene loro offerto, non preoccupandosi di “sdebitarsi” al più presto, perché non sentono il legame come un peso, ma come una componente essenziale della vita. Dipendono sapendo di dipendere e scegliendo le persone da cui dipendere, pronte ad aiutare quando queste persone lo richiedono, senza per questo essere smaniose di farlo per pareggiare i conti e tornare “libere” dal debito contratto.
E, per sfatare un altro luogo comune della società, e di una certa psicologia, di oggi, non si rapportano agli altri avendo come primo obiettivo quello di non farsi “manipolare”. Non vedono il mondo pieno di manipolatori potenziali e dunque entrano in contatto con gli altri senza mettersi in partenza sulla difensiva. Questo spesso induce anche nell’interlocutore un atteggiamento più fiducioso che rende non più necessaria la costruzione di barriere difensive.
L’analisi è un luogo in cui amae può trovare spazio e diventare un valido strumento di lavoro. A differenza di molti, soprattutto tra gli analisti di oggi, ritengo che una delle funzioni principali dell’analisi sia il configurarsi come esperienza emozionale correttiva (Alexander F., 1948 – tr. it. 1969), e attribuisco molto valore al modo di porsi dell’analista nei confronti del paziente, non solo per creare un “clima relazionale” (Carnevali R., 2003) empatico, ma anche come esempio di uno “stile” relazionale che può, per l’appunto, dare luogo a un’esperienza emozionale correttiva. Nel mio modo di essere analista amae è presente come elemento di primo piano. Molti colleghi mi dicono che sono un ingenuo perché credo sempre a tutto quello che i pazienti mi dicono, e che devo invece imparare a diffidare, perché loro sono furbi e tendono a manipolare. Sono convinto di essere un ingenuo, ma non voglio fare niente per non esserlo, intendendo l’ingenuità in senso etimologico, come qualcosa che va alla radice, sfrondata il più possibile dai pregiudizi. Non mi importa di verificare se i miei pazienti mi dicono cose vere o invece vogliono manipolarmi; mi importa di trasmettere loro il fatto che ho fiducia, e che sulla fiducia può fondarsi una relazione in cui le persone in gioco non hanno bisogno di ingannarsi a vicenda, evitando così di ingannare anche se stessi. Nella relazione analitica amae può giocare il ruolo di quell’elemento di scambio tra analista e paziente che non è stato presente nello scambio tra il paziente bambino e la polarità necrofila di sua madre, aprendo le porte a un modo più fiducioso di relazionarsi al mondo. Questo è fondamentalmente ciò che cerco di fare col mio lavoro di terapeuta e di analista.
La parte che segue di questo lavoro ha dato luogo a una revisione critica
da parte dell’autore, contenuta in “Postilla
a ‘Narcisismo sano?’ e ad ‘Amae nella clinica’”, Pratica Psicoterapeutica n. 11 - 2/2014.
Voglio ora proporre una lettura attraverso il parallelo tra amae e la madre biofila del concetto di narcisismo, che a mio avviso ha subìto una deformazione concettuale rispetto al modo in cui l’ha cocepito Freud, tanto più se si cerca di ricondurre questo concetto al mito che gli ha dato origine, quello di Narciso, che ha due elementi che lo caratterizzano in modo fondamentale: l’innamorarsi della propria immagine e il morire a causa di questo. Questi due elementi caratterizzano in modo equipollente il mito, e questo ha dunque senso solo tenendo conto di entrambi. Dal mio punto di vista dunque risulta difficilmente comprensibile il fatto che gli sviluppi del pensiero psicoanalitico successivi a Freud abbiano portato molti a poter parlare di “narcisismo sano”, come se Narciso avesse potuto innamorarsi di sé e fare di questo uno strumento sano per lo sviluppo della sua personalità.
Per procedere nel mio discorso ritengo opportuno far riferimento a un altro termine, che ha seguìto a mio avviso una sorte analoga a quella di “Narcisismo”.
E qui cito una parte del mio lavoro comparso sul numero precedente di Pratica Psicoterapeutica [Carnevali R., “Narcisismo sano?”, Pratica Psicoterapeutica n. 6 (1-2012)].
Il termine è “Onanismo”, che tutti nel parlare comune intendono come definitorio della pratica della masturbazione. Il termine deriva da un personaggio della Bibbia, Onan, che peraltro non praticava la masturbazione, ma il “coitus interruptus”. Dunque una pratica è stata sovrapposta all’altra, cancellando un elemento fondamentale, la presenza di una persona con cui si è in un rapporto di accoppiamento, seppure interrompendolo al momento culminante. Come ha potuto accadere questo fatto? Per la mentalità cattolica, l’elemento essenziale dell’accoppiamento è l’evitare la dispersione del seme. Come Fabrizio De André ci dice in Il testamento di Tito:
Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme:
feconda una donna ogni volta che l’ami,
così sarai uomo di fede.
Dunque, per il buon cattolico, chi si masturba e chi pratica il coitus interruptus fanno sostanzialmente la stessa cosa, commettono lo stesso peccato di dispersione del seme, e sono accomunabili in una stessa categoria. La presenza o meno di una persona reale come oggetto d’amore è un accessorio irrilevante, perché manca l’elemento essenziale: la fecondazione.
Se mi occupassi seriamente di teologia e di sociologia delle religioni, cercherei di sollevare un problema, segnalando che, anche se non di molto, oggi la mentalità cattolica è cambiata, e che forse anche per un sacerdote la masturbazione e il coitus interruptus non sono proprio la stessa cosa, e dunque il termine “Onanismo” non è più adatto a definire la masturbazione.
Visto che faccio lo psicoanalista, segnalo che nella psicoanalisi è successo un fatto del tutto analogo con il termine “Narcisismo”.
Quando è stato coniato, e quando sono stati fatti i primi studi di approfondimento, evidentemente si dava per scontata la pulsione di morte come elemento essenziale della visione psicoanalitica, e dunque il fatto che Narciso arrivasse a morire a causa dell’amore per la propria immagine è stato considerato un fatto non particolarmente degno di nota, e si è pensato che il concetto andasse approfondito solo per la sua caratteristica di rapporto del soggetto con la propria immagine, arrivando a pensare a un rapporto buono o cattivo, sano o patologico, primitivo o maturo.
Visto che, pur continuando a considerarmi uno psicoanalista, mi muovo in una prospettiva totalmente fondata su una base esperienziale e relazionale, e dunque la pulsione di morte è al di fuori delle mie categorie (non sono comunque l’unico, pensiamo ad esempio a Fromm e a Sullivan), trovo improprio l’uso del termine Narcisismo per definire una caratteristica della persona che può avere degli aspetti maturi o sani, perché il concetto ha in sé la componente autodistruttiva, che lo colloca in una dimensione che, se non si tiene in considerazione la pulsione di morte, non può essere né sana né matura.
E qui torniamo ad amae e alla madre biofila. La madre giapponese che educa il proprio figlio in amae, coincidente per me in tutto e per tutto con la madre biofila di Fromm, è quella che offre al figlio l’immagine di un mondo nel quale può muoversi con una certa fiducia, aspettandosi accoglimento e comprensione, almeno da parte di qualcuno. Questa dimensione si colloca al polo opposto del narcisismo, inteso, come io lo intendo, come un culto della propria immagine che rende diffidenti nei confronti del mondo, e che porta quindi a sottrarsi al confronto e alla condivisione. Non credendo nella pulsione di morte, e ritenendo quindi, con Fromm (v. ad es. Anatomia della distruttività umana), che gli impulsi distruttivi siano frutto di uno stile educativo necrofilo, ho tolto dal mio vocabolario il concetto di “narcisismo sano” o “maturo”, e pratico una psicoterapia psicoanalitica improntata ad un atteggiamento biofilo che stimola alla fiducia e alla condivisione. Non a caso considero il setting di gruppo elettivo, in quanto facilitante per l’appunto la condivisione e il riconoscimento di meccanismi proiettivi che inducono alla difesa narcisistica dei propri spazi, che altro non sono se non le proiezioni dell’immaginario prescrittivo di un mondo genitoriale necrofilo.
Concludo cercando di sfatare un altro fraintendimento relativo ad amae. Ho infatti trovato in letteratura [5] l’idea della madre giapponese come overprotective, proprio in quanto il suo rapporto con il figlio è caratterizzato da amae. La realtà è capovolta di 180°. Amae si colloca al polo opposto dell’iperprotettività, essendo la sua caratteristica principale, come s’è detto, lo stimolare ad andare verso il mondo con fiducia, ritenendo che ci sarà qualcuno che saprà capirci e accoglierci, e dunque ponendo le basi per un incontro dis-armato che può favorire la condivisione. La madre overprotective è invece quella che, nel tentativo di salvaguardare l'integrità del figlio, circoscrive i suoi spazi e le sue relazioni, in una dimensione necrofila che facilita il formarsi di una personalità narcisista; l'iperprotettività, al contrario della biofilia di amae, produce il culto dell'immagine di sé, a scapito dell'incontro con l'altro e dello scambio relazionale, in una prospettiva non sana e non matura, intrisa di implicazioni autodistruttive.
Bibliografia
Alexander F. (1948), Fundamentals of Psychoanalysis, Oxford, England, W. W. Norton; tr. it.: Gli elementi fondamentali della psicoanalisi, Sansoni, Firenze, 1969.
Carnevali R. (2003), L’immaginario e il diavolo, FrancoAngeli, Milano.
Carnevali R. (2008), “C’è qualcosa di nuovo... anzi d’antico”, in Setting n. 26; II° sem. 2008, FrancoAngeli, Milano.
Doi T. (1971), Amae no kózó, Kobundo Ltd. Tokio – English translation The Anatomy of Dependence, Kodansha International, 1973; tr. it.: Anatomia della dipendenza, R. Cortina, Milano, 1991.
Fromm E. (1964), The Heart of Man, its genius for good and evil, Harper & Row; tr. it.: Psicoanalisi dell’amore, Newton Compton, Milano, 1971.
Fromm E. (1973), The Anatomy of Human Destructiveness, Holt, Rinehart And Winston; tr. it.: Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975.
Fromm E., Suzuki D. T., De Martino R. (1960), Zen Buddhism and Psychoanalysis, George Allen & Unwin; tr. it.: Psicoanalisi e buddhismo zen, Astrolabio, Roma, 1968.
Molino A. (by) (1998), The Couch and the Tree, Open Gate Press, London; tr. it.: Psicoanalisi e Buddismo, R. Cortina, Milano, 2001.
Molino A., Carnevali R. (a cura di), Tra sogni del Budda e risvegli di Freud, Arpanet, Milano, 2010.
Smith H. W., Nomi T. (2000), “Is Amae the Key to Understanding Japanese Culture?”, Electronic Journal of Sociology (2000) ISSN: 1198 3655.
[1] Carnevali R., “Amae e il buddismo in occidente”, in Molino A., Carnevali R. (a cura di), Tra sogni del Budda e risvegli di Freud, Arpanet, Milano, 2010.
[2] Fromm E. (1973), Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975.
[3] Fromm E. (1964), Psicoanalisi dell’amore (titolo orig. The heart of man), Newton Compton, Milano, 1971.
[4] Ad integrazione del pensiero di Fromm possiamo pensare che anche la figura paterna svolga un ruolo fondamentale nel costituirsi di questo clima, mantenendo come chiave di lettura la bipolarità necrofilia-biofilia.
Un elemento centrale di questo discorso diventa una rilettura dell’Edipo in chiave relazionale. Un atteggiamento necrofilo nei confronti del mondo investe anche, e prima di tutto, la figura del nascituro: quello che possiamo considerare un naturale atteggiamento di “rigetto” rispetto a un elemento di discontinuità che viene a inserirsi in una continuità (la nascita del bambino vista come elemento perturbante rispetto alla coppia) si declina in tutta la gamma delle possibilità sull’asse necrofilia-biofilia. Prima di pensare all’impulso distruttivo di Edipo nei confronti di Laio, pensiamo dunque alla profezia che vede Edipo come l’usurpatore, e induce Laio a mandare il bimbo a morte. Prima che ci sia un bimbo destinato a uccidere il padre e a giacere con la madre, c’è una coppia di genitori che vede in lui tutto questo, e che, proprio per evitare che ciò accada, costruisce una situazione che fa in modo che il fato si compia. In altri termini, possiamo vedere nella coppia di genitori nei quali prevale l’atteggiamento necrofilo, che vede negli elementi del mondo circostante pericoli potenziali che devono essere distrutti prima che ci distruggano, il primo e più importante “segno” che viene posto sul nascituro, che non già porta in sé il destino dell’essere Edipo, ma viene reso assassino e incestuoso dalle difese che i genitori mettono in atto nei suoi confronti.
[5] V. ad es. Herman W Smith (UM-St. Louis), Takako Nomi (UM-St. Louis), Is Amae the Key to Understanding Japanese Culture?, Electronic Journal of Sociology (2000) ISSN: 1198 3655.