ad Anna Pandolfi
Il testo presentato ha l’obiettivo di sviluppare due aspetti del percorso di cura all’interno dell’istituzione psichiatrica:
1) il lavoro riabilitativo come fenomeno essenzialmente gruppale
2) l’attenzione clinica ai pazienti gravi, psicotici e con disturbo borderline della personalità, attraverso progetti che coinvolgono anche le loro famiglie.
La funzione di cura si definisce come: “l’insieme organico e coerente dei metodi e delle attenzioni destinate a:
- preservare e rinforzare il potenziale di salute psichica e di sopravvivenza di pazienti e delle loro famiglie
- sostenere le terapie propriamente dette, dotate queste di setting più chiaramente delimitati e configurazioni più precise.” (P.C. Racamier, S.Taccani).
La funzione curante così intesa poggia sul postulato di base che ognuno di noi, ogni essere umano, possiede in sé dalla nascita una forza spontanea che tende alla separazione e alla differenziazione, un vero e proprio propulsore che lo spinge all’esterno della fusione narcisistica con la madre.
Crediamo che il progetto di cura del paziente si fonda su tale postulato, che ha anche un risvolto clinico essenziale. Deve cioè valutare in modo preliminare per ogni persona (e naturalmente per la sua famiglia) l’attualità e la presenza di questa spinta separatrice e di differenziazione.
È presente? È attiva? È attuabile con le risorse di quella specifica struttura residenziale, in quel preciso momento, con le sue attuali capacità e competenze?
Esistono alla luce di quanto sopradetto degli elementi clinici e di analisi dei mezzi istituzionali propri della struttura? E ancora, ci sono i presupposti perché paziente, famiglia e gruppo attivino e mettano in opera quella funzione di cura in grado di operare un vero processo di cambiamento?
“Spesso, sottolinea M. Sassolas, noi ci limitiamo intuitivamente a questa valutazione, attraverso la nostra percezione del modo in cui il paziente investe gli operatori, il gruppo, lo spazio, la cornice entro la quale si sviluppa il processo di cura.
Un’analisi superficiale di questo fattore ha sempre conseguenze negative che rischiano di avviare sia il paziente che il gruppo verso una strada senza uscita, annullando così la funzione curante dell’istituzione.
In un caso i curanti sono sottoposti a intense frustrazioni perché hanno sopravvalutato le capacità e il potenziale vitale del paziente, nell’altro il paziente rimane incastrato in attività di cura di tipo protesico e corre il rischio di una sempre maggiore frammentazione dell’Io, nelle sue molteplici espressioni, ad esempio anche di agiti dirompenti violenti e distruttivi o auto-distruttivi, perché le sue attitudini all’individuazione psichica sono state sotto-stimate dagli invianti e dal gruppo di cura.”
Tale problema pone l’attenzione sui limiti e le risorse del singolo paziente, dell’équipe ed infine della struttura nel suo insieme, cioè di quella molteplicità di fattori che costituiscono “l’abitare terapeutico.”
Funzione che non è data una volta per tutte, ma che va mantenuta nella pratica quotidiana e nello snodarsi del tempo istituzionale.
Il gruppo di cura dovrà vigilare sul funzionamento, sugli inevitabili “guasti” che andranno “riparati”, sulle periodiche manutenzioni e ristrutturazioni (ovviamente in senso metaforico).
Non è sempre semplice vigilare affinchè l’investimento positivo dei singoli e del gruppo non venga meno, o sventare gli inevitabili attacchi, a volte manifesti e bene evidenti, ma per lo più latenti e insidiosi.
Perchè tutto ciò possa realizzarsi è indispensabile che esista un substrato di pensiero condiviso, comunicabile, trasmissibile sia all’interno del gruppo degli operatori, sia del gruppo allargato costituito dai pazienti e dalle loro famiglie.
Ciò che sembra di apparente ovvietà, non è di fatto così scontato nella operatività quotidiana, costantemente confrontata con la discontinuità dei percorsi del singolo paziente e del gruppo; caratteristica questa fatta sia di momenti evolutivi ma anche di quello stallo, di quelle vertiginose regressioni che sono così note a tutti gli addetti ai lavori.
La sopravvivenza della capacità di pensare e l’autonomia psichica del soggetto psicotico: questa è la posta in gioco, questa diventa la sfida del lavoro di cura.
A questo proposito è importante sottolineare che, quando parliamo di sofferenza psichica grave, ci riferiamo per lo più a pazienti che, prima ancora di un pericolo fisico,
corrono un rischio per la sopravvivenza psichica; sono soggetti che in modo silenzioso ma costante operano su loro stessi un vero e proprio tentativo di suicidio mentale che, per fortuna, non sempre si realizza concretamente.
Sul piano interpersonale ciò trasmette all’altro un vissuto di angoscia che quando supera una certa soglia, fa a sua volta vacillare il pensiero, e si attiva così nel contesto istituzionale quella spirale vorticosa che introduce disaffezione e noia o, peggio ancora, perversità e insanabili scissioni.
Opporsi a queste realtà clinico-istituzionali potenti e distruttive è indispensabile. Presuppone da parte del gruppo conoscenza, elaborazione, organizzazione e metodo di lavoro per individuare questi e altri fenomeni, al fine di riconoscerli e arginarli.
D’altra parte è la sopravvivenza stessa (vitale e creativa) dell’abitare terapeutico che è in gioco.
La seconda tappa del nostro percorso è il complesso e delicato rapporto gruppo-operatori-pazienti-famiglie.
In un passato non troppo lontano (e a volte in un presente ancora attuale) questo aspetto è stato troppo poco considerato dai curanti che, a vari livelli, e con strumenti differenti operano con il paziente grave; questo può indurre a una lettura e una valutazione clinica non adeguata o comunque carente, quando non scorretta.
A questo proposito dobbiamo individuare una differenza clinica e operativa tra i pazienti psicotici inseriti in una struttura residenziale “spontaneamente” (che sono una minoranza) e quelli che sono passivamente orientati verso una struttura o per esigenze sociali, o per una situazione di crisi e di sfaldamento psichico.
Sono questi ultimi i pazienti che maggiormente usufruiscono delle strutture residenziali, pazienti che preliminarmente non hanno alcuna aspettativa, non chiedono aiuto psicologico, anzi esprimono spesso un rifiuto.
Dietro questa negazione del proprio disagio psicologico c’è spesso un disinvestimento importante nei confronti della propria dimensione psichica, quando non una vera e propria paura dell’attività di pensare.
Si tratta dunque di pazienti che non giungono direttamente alla struttura, ma vengono “portati” o “spinti”.
Come scrive Anna Maria Pandolfi “…sono così malati da non essere in grado, per una serie di motivi, di avere cura di sé, perché non si fidano e hanno paura, perché non si aspettano nulla di buono dagli altri, perché sono troppo malati per accorgersi di esserlo. Ma molto spesso perché sentono in una loro oscura modalità che il disagio ha sede non solo in loro, ma anche nel campo relazionale in cui si trovano o per meglio dire nell’interfaccia tra loro e l’ambiente.” [A.M. Pandolfi, "Lo psicoanalista e la famiglia dei pazienti gravi", in Quale psicoanalisi per le psicosi? a cura di A. Correale e L. Rinaldi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997]
Tutto ciò, trasferito nel nostro lavoro quotidiano con la tipologia di pazienti inseriti nelle strutture di cui abbiamo parlato, si costituisce come un dato clinico per la comprensione del soggetto, della sua storia individuale e famigliare e dei legami intersoggettivi.
I pazienti che risiedono nelle strutture di riabilitazione psichiatrica, pazienti gravi e a prevalente funzionamento psicotico, e le loro famiglie vengono a costituire parte integrante del quadro istituzionale, che ha un proprio sistema di funzionamento, valori, specifiche valenze cliniche e/o sociali, regole ed obbiettivi, in cui concretamente ciò si inserisce.
È fondamentale che il quadro istituzionale sia costantemente pensato e ripensato dal gruppo nel suo contesto spaziale, temporale e gruppale, mediato dal riferimento clinico del progetto globale di cura e di trattamento costruito per ogni singolo paziente.
Altrettanto essenziale, lo ripetiamo, è che vi sia un presupposto condiviso dal gruppo, un “sapere preliminare”, e che esista un rapporto dialettico di influenza e di interdipendenza reciproca tra quadro istituzionale e gruppo di appartenenza primaria del singolo (presente o futuro paziente).
[Per gruppo di appartenenza primaria intendiamo si la famiglia nucleare ma anche la famiglia allargata] .
Vignetta clinica n 1.
Quando una giovane paziente suicidaria mise in atto la sua ennesima fuga dalla comunità terapeutica che la ospitava per ritornare da una madre esasperata e rifiutante, che lei stessa non riusciva a tollerare più di pochi giorni e da cui nuovamente si sarebbe allontanata in una situazione di confusione e di disperazione per giungere ad un ricovero ospedaliero, l’unica possibilità rimasta all’equipe fu quella di valorizzare la relazione tra la madre e il gruppo curante.
Ci siamo resi conto che la madre insisteva sul fatto che eravamo degli incapaci, ma desiderava che sua figlia continuasse il percorso comunitario. Naturalmente l’istinto era quello di dirle: “senta signora, bisognerebbe capire che cosa vuole: o siamo degli incapaci oppure lei vuole che sua figlia continui la cura?”
Dopo numerose riflessioni, è stata redatta e inviata alla signora uno scritto (di cui la figlia era a conoscenza). In questa lettera si sottolineava che avevamo compreso ciò che lei comunicava:
“Se bene comprendiamo lei ci dice due cose:
1) a suo parere siamo poco competenti e nutre dei dubbi anche circa la riuscita del progetto terapeutico.
2) ciò nonostante lei auspica di tutto cuore che sua figlia continui ad essere seguita da noi.
La preghiamo di avere la cortesia di smentire eventualmente tali affermazioni”.
Tenevamo molto al fatto che lo scambio avvenisse tramite una lettera, perché rappresentava qualche cosa descritto in modo preciso e accurato. Ogni parola era stata pensata e scelta. In modo da far emergere l’ambivalenza e la contraddizione della richiesta della madre.
Valutare attentamente questi aspetti è un altro passo essenziale per porre un’indicazione all’accesso e al programma di una struttura residenziale e, allo stesso tempo, per esplicitare una contro-indicazione (poichè anche queste esistono e vanno individuate).
Riteniamo che indicazioni “cattive” o “non sufficientemente buone” siano in grado di alimentare situazioni di stallo, o peggio ancora di indurre seri e pericolosi disfunzionamenti nell’esito della cura.
Vignetta clinica n 2
Mariano è un giovane adulto con disturbo psicotico, in carico ad una équipe territoriale per un lavoro protetto. L’intero gruppo curante viveva un senso di fallimento dei propri obiettivi e questo nonostante l’assistente sociale e lo psicologo avessero svolto un’accurata valutazione e un progetto personalizzato. Mariano era riuscito a fare fallire ripetutamente i numerosi tentativi di inserimento, attraverso agiti antisociali. Gli operatori erano paralizzati in una sorta di “stallo angosciante”: tra il tentativo di evitargli una condanna e l’impotenza di riuscire a convincerlo a curarsi nella comunità. Da sempre Mariano era coinvolto in una relazione ambivalente ma profondamente simbiotica con la madre; essa non ne tollerava la separazione e ricavava quasi piacere e ammirazione per i suoi comportamenti antisociali.
È un argomento delicato e importante l’inserimento di un paziente in una struttura residenziale così come la scelta degli ospiti e il mantenimento armonico e vitale del gruppo all’interno delle coordinate spazio-temporali.
Altrettanto importante è la formazione di un gruppo di cura integrato e affiatato, potremmo dire “ben temperato”, così come va sottolineato il problema della dimissione, della fine, della terminabilità e chiusura dell’intervento.
Ogni istituzione è un ambiente, ha un quadro entro cui possono avvenire alcuni processi e non altri: sia per gli utenti che per gli operatori. Tutto ciò che le dimissioni implicano è previsto e prevedibile come evento, come processo? E se non lo è, perché? La difficoltà a dimettere, a dimettersi, a farsi dimettere da che cosa origina? Certo non è casuale… Comprendere quali siano i fenomeni relativi alle dimissioni, ha a che vedere anche con la rete relazionale complessa che comprende anche l’istituzione e l’equipe curante da un lato e il paziente e la sua famiglia dall’altra. In alcuni pazienti si ha l’impressione che l’équipe eserciti nei confronti del Sé del paziente una funzione di contenimento assoluto, totalizzante. La nota affermazione di Winnicott: “… non esiste in realtà qualcuno come un bambino”, se noi la trasformiamo in ambito istituzionale, forse potremmo affermare in qualche caso: non esiste un paziente senza istituzione ma neppure l’istituzione può esistere da sola. Insieme formano un’unità.
A livello istituzionale può ricrearsi un fenomeno in cui il legame non attiva sicurezza e protezione e quindi crescita, ma al contrario diviene vincolo paralizzante.
In questo senso allora uno dei compiti istituzionali più complessi e delicati non è tanto come rompere questa unità, quanto piuttosto come operare un processo di cambiamento che parta dal cominciare a pensare “un altrove” da investire progressivamente, con cautela, con movimenti oscillatori e avvicinamenti progressivi.
Ogni istituzione possiede una quota di pazienti in cui l’unità assume, oltre alle caratteristiche già rilevate quella di essere immutabile e insensibile al tempo. La negazione dello scorrere del tempo, della separazione, ma anche delle differenze individuali (di ruoli, operatori) garantiscono la continuità dell’istituzione, ma non permettono una differenziazione. Quando l’equipe curante pensa alle dimissioni di un paziente è bene sappia perché è giunta a questo, in rapporto al progetto, agli obbiettivi ed al raggiungimento degli stessi.